Capitolo primo: OSTIA ANTICA
“Così quando io sono andato ad Ostia dieci anni fa erano scavate due o tre case in tutto e sebbene fossero già notevoli le differenze con la domus pompeiana non si era pensato che su di esse si potesse studiare il tipo fino ad allora ignoto di una nuova casa latina. Gli scavatori avevano fornito degli eccellenti materiali di studio disseppellendo quelle abitazioni ma non avendoli essi stessi messi in valore nessuno si era curato di ristudiarli e rielaborarli per conto proprio. E’ bastato invece pubblicare, e così come io ho fatto, uno studio sulla casa ostiense perché esso desse luogo ad alcune dissertazioni anche straniere e perché il nuovo tipo di casa entrasse finalmente anche nei manuali antiquari come quello di Cagnat e Chapot 1. Per questo ho creduto non soltanto doveroso ma utile che a Ostia neppure un metro di terreno venisse esplorato senza renderne conto e ho avuto in ciò alleati concordi e il Vaglieri e il Paribeni dopo. Né bisogna trascurare, compiuta la illustrazione scientifica, anche la divulgazione, destinata ad un più largo pubblico che non quello delle riviste strettamente scientifiche 2.”
Con queste parole Guido Calza, nel 1922, commenta il suo lavoro spiegando l’importanza storica-archeologica della resurrezione di Ostia che influenzò e interessò non solo il mondo archeologico ma quello culturale, politico e sociale del tempo e che tuttora rimane di grande importanza anche se poco valorizzata.
1 - Le origini e l’età repubblicana
La tradizione storica e letteraria antica, riassunta in un passo di Tito Livio, faceva risalire la prima espansione di Roma verso la costa tirrenica all’età del quarto re, Anco Marzio, tra il 640 e il 616 a C. Altre fonti ci forniscono l’etimologia del nome Ostia da ostium, “ingresso” del Tevere. Probabilmente la cittadina arcaica, che aveva il ruolo, come colonia di Roma, insieme militare e commerciale non sorgeva sul luogo che sarebbe stato poi occupato dalla Ostia storica. Una vera documentazione archeologica su Ostia si ha solo a partire dai primi del IV secolo d.C., rivelando l’esistenza di un castrum, “accampamento”, con tutte le caratteristiche proprie del campo militare romano, con le due vie principali, il Cardo maximum e il Decumano maximum, in asse con le porte delle mura che cingevano la piccola cittadella. Ostia, non solo segnò la prima affermazione di Roma sul mare, ma ne accompagnò lo sviluppo e la potenza sia navale che commerciale. Infatti alla primitiva cittadella fortificata successe una città più ampia (età repubblicana) che, circuita anche essa da mura, bastò poi a contenere la città imperiale. Nessuna fonte ci dice quando avvenne la trasformazione del castrum in urbs, ma constatando che l’importanza di Ostia seguì di pari passo l’importanza di Roma, ciò comportò che il ruolo militare, divenuto essenzialmente quello di una base navale, non fu l’unico e fondamentale ma ad esso si unì la funzione commerciale. Nel II secolo le mura furono messe fuori uso dalla costruzione di una serie di botteghe che vi si addossarono sul lato est, segno evidente del nuovo sviluppo commerciale e della crescente espansine dell’insediamento. Presa e saccheggiata dalle truppe di Mario, nell’87, nell’età delle guerre civili, fu restaurata da Silla che la dotò di una cinta muraria nella quale vi si aprirono tre porte principali, fiancheggiate da torri.
L’area compresa entro la nuova cinta era quasi trenta volte più ampia del castrum primitivo. Sembra che i progettisti delle mura abbiano previsto ampie zone libere per garantire la futura espansione della città all’interno dello spazio protetto. Ed è in questa fase che Ostia fu trasformata istituzionalmente in colonia romana, sottraendosi alla diretta supervisione di Roma per quanto atteneva alla politica locale (edilizia pubblica, scelte urbanistiche), pur mantenendo il controllo diretto degli approvvigionamenti. Ostia alla fine della repubblica doveva apparire un centro di carattere commerciale, con file di tabernae e le più modeste abitazioni del popolo accanto alle facciate delle ricche e spaziose domus signorili ad atrio e peristilio, con vari templi, con strade regolari fiancheggiate da portici e colonnati in tufo o in travertino.
2 - L’età imperiale
Il principato di Augusto segnò un momento importante nel processo di adeguamento del volto urbanistico di Ostia alla dignità propria di una colonia romana. Infatti è all’inizio del regno di Augusto che viene realizzato il Teatro e l’antistante Piazzale delle Corporazioni, destinato a diventare importante luogo di ritrovo e di affari. Con Tiberio venne organizzato il Foro nel cuore del vecchio castrum, erigendo di fronte al Capitolium il grande Tempio di Roma e Augusto : Ostia aveva finalmente il suo centro politico-religioso monumentale. Il mattone cominciò a sostituire il tufo, dando origine a nuove forme architettoniche e permettendo lo sviluppo in altezza, mentre il marmo, sempre più largamente impiegato, arricchì l’aspetto monumentale della città e i vecchi edifici repubblicani andarono gradatamente scomparendo. Nella Ostia degli inizi dell’età imperiale non mancavano i grandi edifici a carattere commerciale sia gli horrea (magazzini) che gli isolati con allineamenti di botteghe al piano terreno. Ma l’aspetto della vita quotidiana che la documentazione archeologica permette di approfondire meglio, è senza dubbio quello dell’abitazione. Benché quasi tutte le domus del periodo siano andate perdute in seguito alla grande ricostruzione di Ostia in età traianea e adrianea, alcuni esempi sopravvissero ancora per secoli. Le domus ostiensi non subirono rilevanti trasformazioni morfologiche tra la tarda repubblica e il primo secolo dell’impero, la loro tipologia, ellenistico-romana, non si discosta da quella ben nota di Pompei ed Ercolano. La pianta di queste dimore, unifamiliari e abitualmente ad un solo piano, rispondeva ai criteri rigidamente fissati e standardizzati. Lunga e stretta, si sviluppava in profondità, con una breve facciata sulla strada 3. Sembra che per Ostia sia stata molto importante l’opera del terzo imperatore Flavio, Domiziano (81-96 d.C.) . L’analisi stratigrafica ha rivelato che in età Domiziana il livello del suolo venne rialzato di circa un metro ovunque si procedesse a costruzioni e ricostruzioni di edifici. La causa di ciò fu che mentre Ostia si era estesa fino ad allora soprattutto orizzontalmente, l’incremento della popolazione cominciava ad esigere uno sviluppo in altezza delle nuove tipologie edilizie. I fabbricati più alti richiedevano fondazioni più profonde e più solide, incompatibili con i suoli sabbiosi originari. La Ostia di Domiziano appare caratterizzata dal fiorire di opere pubbliche, benché successivamente scomparse, ma soprattutto il reinterro attuato o iniziato in questo periodo costituì una delle principali condizioni della ricostruzione intensiva della città, verificatasi nei decenni successivi. Ma se Ostia doveva continuare ad assolvere la funzione di emporio commerciale, non poteva più bastare il fiume a contenere le navi del commercio romano sempre più fiorente. Fu sotto Claudio che si iniziò la costruzione di un nuovo porto, tutto scavato artificialmente alla destra del Tevere. A questo, con Traiano (98-117 d.C.), fu aggiunto un ampio bacino esagonale e allungato il canale di comunicazione tra il porto e il fiume, il così detto Fiumicino. Le conseguenze sulla vicenda storica e urbanistica che ebbero su Ostia l’operazione avviata da Claudio e completata da Traiano, furono enormi e per un lungo periodo sostanzialmente positive. Collegata al porto nuovo mediante una strada che attraversava l’odierna Isola Sacra con numerosi traghetti sul fiume, Ostia rimase il centro di una fiorente vita cittadina sede della vasta organizzazione annonaria della capitale. Infatti Roma, nel II secolo, era all’apice del suo sviluppo, la popolazione continuava ad aumentare ed aumentavano di pari passo le importazioni sia alimentari che di ogni altra merce e conseguentemente Ostia dovette adeguarsi alle nuove esigenze della capitale e anche alle proprie. Furono potenziati i depositi, costruiti un gran numero di nuovi alloggi, adeguate le strutture amministrative di Ostia il cui aspetto diventò quello di una città” moderna”. Questo salto di qualità, si compì, sostanzialmente in un sessantennio nel corso dei regni di Traiano, di Adriano (117-138 d.C.) e di Antonino Pio (138- 161 d.C.). Le costruzioni si moltiplicarono e si intensificarono sotto Traiano, con sempre crescente numero di horrea, tabernae e si realizzarono casette in serie per la piccola borghesia. Ma fu con Adriano che il rinnovamento urbanistico di Ostia entrò nella sua fase decisiva. Interi quartieri furono totalmente ricostruiti sulla base di veri e propri “piani di attuazione”, basati su un chiaro principio di programmazione urbanistica. I quartieri su cui si intervenne furono dotati di strade larghe e diritte, intersecandosi ortogonalmente, di edifici di ogni natura e funzione, dalle terme alle sedi delle associazioni e ovviamente anche di case. Nel settore abitativo l’età di Adriano coincise con il trionfo dell’insula. Caratterizzata dallo sviluppo verticale, anziché orizzontale come la domus, dalla illuminazione esterna per mezzo di facciate su strada e su cortili interni aperti e infine da una organica distribuzione dei vari ambienti nei singoli appartamenti, l’insula fece parte del piano urbanistico adrianeo il cui apice fu la realizzazione del comprensorio delle Case Giardino. D’altra parte il grande “piano d’attuazione” ebbe anche un risvolto monumentale, infatti fu ricostruito il Foro che assunse il ruolo di cerniera fra i quartieri prevalentemente commerciali a nord e quelli prevalentemente abitativi a sud. La politica edilizia adrianea lasciò agli architetti attivi nell’età di Antonino Pio essenzialmente il compito di portare a termine l’opera intrapresa con tanto successo, e di sfruttare gli spazi ancora non investiti dalla ristrutturazione. Quindi l’intera attività edilizia continuò sotto gli imperatori antonini con l’uso di una tecnica prevalentemente laterizia e con la costruzione di terme, horrea, templi, vasti caseggiati d’affitto, ampie sedi di collegi, e perdurò sotto i Severi, che utilizzarono un rosso e sottile laterizio.
3 - La decadenza
Settimo Severo (193-211), che fu anch’egli un deciso sostenitore dei commerci ostiensi, proseguì l’ampliamento del Teatro iniziato da Commodo e rinnovò tutto il Piazzale delle Corporazioni. Ma nonostante gli sforzi per migliorare la città le difficoltà economiche e politiche dell’impero si andavano aggravando, e i loro riflessi cominciavano a farsi sentire anche ad Ostia. L’espansione della colonia si era sostanzialmente conclusa con gli ultimi antonini, e anche la ricostruzione dovette arrestarsi. Di fatto l’attività edilizia entro le mura di Ostia, con Settimio e con i successori, dal figlio Caracalla a Severo Alessandro, fu prevalentemente una attività di restauri e di rifacimenti. I nuovi edifici furono pochi e, soprattutto nel campo dell’architettura abitativa, si limitarono a riempire, con soluzioni di ripiego, i rari spazi ancora rimasti disponibili in città. Paradossalmente il principale freno alla crescita di Ostia fu rappresentato proprio da ciò che aveva determinato la sua fortuna e il suo sviluppo: la stretta dipendenza, in ogni tempo, dagli interessi e dalle scelte di Roma. Ostia non fu mai totalmente autonoma, ma costituì, per così dire, il quartiere marittimo di Roma: tale ruolo non si addiceva ad una grande città ma ad un centro di medie dimensioni abitato prevalentemente da un ceto medio addetto all’amministrazione e ai servizi, oppure dedito ai commerci. Si può ritenere che la fine di Ostia sia stata affrettata da Costantino che trasferì i diritti municipali alla vicina Porto che dal 314 si chiamerà portus Romae. Tuttavia ad Ostia continua, anche nel IV secolo, una vita religiosa e civile, come attestano sia alcune ricche domus, sia il restauro di terme e di qualche edificio pubblico. Ma già alla fine del IV secolo e durante il V gran parte degli edifici ostiensi crollano per incuria e per abbandono, i templi vennero spogliati dai rivestimenti marmorei, e i cittadini rimasti si adeguarono ad abitare alla meglio tra costruzioni semi distrutte e fra strade riempite di scarichi e cocci. Legata a Roma, la città visse il suo grande momento in concomitanza con l’apogeo della capitale e del dominio romano sul Mediterraneo: il declino venne, puntualmente e bruscamente, quando la crisi dell’impero precipitò in modo drammatico, e le condizioni della vita economica e commerciale subirono una netta involuzione. La città si spopolò, anche a causa delle continue incursioni barbariche che depredarono e saccheggiarono senza alcuna resistenza, e ormai lasciata a se stessa crollò inesorabilmente sotto l’azione degli agenti atmosferici che disgregarono le murature, seppellendo i primi piani degli edifici e ricoprendosi, attraverso i secoli, di uno strato di terra 4.
4 - Gli scavi
“Non essendosi più ripopolata, Ostia ci si presenta come ce l’ha conservata il tempo, geloso e generoso custode delle memorie antiche, anche quando l’uomo ne ha accresciuto la distruzione asportando materiale e sculture”. Guido Calza ci descrive così lo stato delle rovine nel XIX secolo. Infatti Ostia fu per secoli soltanto fonte di oggetti antichi da trafugare, come fecero lo scozzese Hamilton 5 e l’inglese Fagan 6, e materiali da costruzione da asportare, basterà ricordare che nel Duomo di Pisa si lavorò con marmi provenienti da Ostia e che nell’ottocento molte colonne ostiensi trovarono collocazione nella Basilica di S. Pietro. Con Pio VII, nel 1803, si tentò di iniziare un’analisi più attenta della città ma le ricerche furono affrettate e non documentate anche se venne interdetto lo scempio fatto da gente “ la quale, per lo più, altro non aveva in cuore che il rinvenir cose di valore per farne commercio 7”. Ma la vera esplorazione archeologica ad Ostia, nell’ interesse della scienza e della storia, iniziò sotto il pontificato di Pio IX, nel 1855, per opera di Pietro Ercole e Carlo Ludovico Visconti, che per primi intrapresero lo studio della topografia della città. Furono ritrovati molti reperti tra cui le Terme Marittime ed il cosi detto Palazzo Imperiale, dal quale fu asportato un grande mosaico e collocato in Vaticano. Era, infatti, consuetudine quella di trasportare i reperti più significativi nei pontifici musei romani, disperdendo così una importante documentazione, non essendo ancora eseguiti gli scavi con criteri strettamente scientifici. Fu però lo stesso Pontefice, per iniziativa di Pietro Ercole Visconti, che ordinò la costruzione di un Museo Antiquario di Ostia per raccogliere sul luogo degli scavi i reperti ritrovati. L’edificio prescelto per il museo era una vecchia fabbrica, il Casone del Sale, 8 che fu trasformata dall’ architetto Romiti, tra il 1865 e il 1868, con il nome di Museo Mastai. In realtà gran parte dei reperti fu mandata a Roma, e al museo di Ostia non restò che il nome e la buona intenzione che lo aveva motivato. Solo successivamente, come vedremo nel prossimo capitolo, l’opera sarà realizzata. In seguito furono in molti ad occuparsi delle rovine di Ostia scavando in diverse parti della città, come ad esempio Rodolfo Lanciani 9 che portò alla luce il teatro e altri edifici circostanti; ma i finanziamenti erano scarsi e la ricerca rallentò notevolmente 10. Fu con l’intervento del governo italiano 11 che, dal 1910, gli scavi poterono iniziare in maniera metodica e continuativa. Infatti Dante Vaglieri 12, direttore degli scavi dal 1908, non solo si occupò della conservazione delle rovine già scavate ma congiunse i singoli gruppi di esse liberando le antiche strade dai cumuli di terra e detriti. Una pubblicazione di L. Paschetto, Ostia colonia romana, storia e monumenti 13, del 1912, delineava la situazione archeologica della zona. La città era stata scavata per soli 500 metri di lunghezza lungo il decumanus maximus e per un larghezza di 200 metri. I resti visibili erano l’alta mole del Capitolium, il quartiere a nord del cardo maximus, il teatro con il piazzale delle Corporazioni, la casa di Apuleio scavata dal Lanciani, la caserma dei vigili, la porta romana con il tracciato del decumanus fino al Foro. Nella presentazione della pubblicazione il Vaglieri indicava le prospettive della ricerca, la necessità di scavare in profondità oltre che in estensione per recuperare, in aggiunta agli edifici imperiali, anche le fasi più antiche della storia della città. Il Vaglieri morì precocemente nel 1913; il suo programma fu così realizzato da Guido Calza, divenuto ispettore degli scavi nel 1912, e dall’architetto Italo Gismondi, entrato a lavorare ad Ostia nel 1909 chiamato dal Vaglieri. Questi ultimi fino al 1914 lavorarono sotto la direzione di A. Pasqui e poi fino al 1924 sotto quella di Roberto Paribeni 14, a cui il Calza successe come soprintendente. I primi anni di lavoro di Calza e Gismondi impressero un chiaro andamento all’opera di scavo e di sistemazione dell’area urbana, ampliando il perimetro dei rinvenimenti e rivelando l’importanza della città. Infatti la collaborazione che si instaurò fra i due personaggi fu fondamentale per i risultati ottenuti. Il primo rappresentò la figura pubblica e istituzionale mentre il secondo, più riservato, rimase nell’ombra, pur essendo basilare la sua opera di restauro e ricostruzione dei reperti archeologici ritrovati. Guido Calza, nato a Milano nel 1888, laureato in lettere, fin da studente rimase affascinato da Ostia alla quale dedicò, con la sua attività di ricerca e scavo, tutta la sua vita. Inoltre la sua figura fu molto importante per la costante ed attenta opera di divulgazione che sin dall’inizio intraprese interessando studiosi, letterati, ma anche giornalisti, con pubblicazioni, articoli, conferenze sia in Italia che all’estero 15. Italo Gismondi, nato a Roma nel 1887, laureato in ingegneria ed architettura, si impegnò nello studio della edilizia e dell’urbanistica romana di cui furono espressione insostituibile i plastici e le ricostruzioni grafiche della Roma imperiale e del suo porto. Sotto la soprintendenza del Paribeni si concluse lo scavo del piazzale delle Corporazioni, e si iniziò lo scoprimento del quartiere fra il teatro e il Capitolium, sul lato nord del decumano maximus con i grandi horrea. Fra il 1915 e il 1918 tornò alla luce il grande quartiere compreso fra le vie della casa di Diana, la via dei Dipinti e la via dei Molini, primo interessante esempio di abitazioni intensive di epoca imperiale 16. Ai rapporti pubblicati dal 1914 in Notizie degli scavi, il Calza fece seguire due importanti studi in cui delineava le diversità tipologiche tra domus pompeiana e insula ostiense 17. Fondamentale, per una concreta attuazione del piano di scavi, fu l’acquisizione, avvenuta nel 1917, da parte dello stato del comprensorio globale dell’antica città 18. Dal 1920, al ritorno di Calza dalla guerra e in seguito alla sua nomina a direttore degli scavi, iniziarono ad arrivare maggiori fondi che permisero di intensificare le ricerche. Infatti, attuando il programma del Vaglieri, si scavò in profondità l’aspetto più antico della città, riesumando tutto il castrum primitivo. Il metodo di intervento nei confronti dell’assetto e restauro delle rovine di Ostia era ben definito dallo stesso Calza dividendolo in tre categorie differenti: riassetto e prevenzione delle rovine, reintegrazione delle rovine, restauri di liberazione. Inoltre, nel 1938, affermò nel II Convegno Nazionale di Storia dell’Architettura che : “(...) a me pare sia consigliabile ed utile qualche completamento del rudere anche quando non si sia trovato l’elemento murario per la ricomposizione (...) La visione di una città antica deve essere infatti di facile comprensione, e l’osservatore va aiutato e guidato per quanto si può, a trarre dalle rovine il maggior godimento estetico e il miglior valore istruttivo. A questo scopo giova altresì, si intende, la presenza di buoni grafici, piante, sezioni, prospetti tra le rovine stesse a comprensione degli edifici di qualche importanza, come indubbiamente giova riprodurre tra i ruderi un poco della vita antica lasciando tra essi tutti quegli elementi e motivi che servono a reintegrarla (...) 19” Proprio con queste parole l’archeologo sintetizzò il programma messo in atto insieme all’architetto Gismondi dagli anni venti fino agli anni quaranta, riportando così alla luce gran parte della città, ancora oggi visibile, e, attraverso le ricostruzioni, comprenderne meglio la sua immagine e il modo di vivere dei suoi abitanti. Italo Gismondi nei suoi disegni e nei suoi plastici si basava solitamente su attente analisi e rilievi dei ruderi 20. Misurando le dimensioni dei muri, degli archi, l’altezza dei soffitti, delle scale, analizzando la tecnica edilizia e i differenti materiali, ipotizzava, in modo molto attendibile, l’altezza, le dimensioni, l’aspetto degli edifici presi in esame, di cui alcune parti venivano completate mentre il resto veniva graficizzato nei bellissimi e raffinati disegni che descrivevano, anche con elementi di fantasia, l’intera immagine di una strada, di una casa, di un cortile e di un unico elemento architettonico. Nel 1923 alcune di queste ricostruzioni, illustrate dal Calza, vennero pubblicate sulla rivista Architettura ed Arti Decorative con il titolo Le origini latine dell’architettura moderna. L’articolo, pur essendo stati pubblicati altri scritti sullo stesso tema, ebbe una grande influenza sul mondo culturale ed architettonico del tempo perché lo stesso Calza dimostrò le evidenti analogie che le insulae ostiensi avevano con l’architettura moderna 21. Gli scavi proseguirono negli anni trenta grazie alla continuità dei mezzi finanziari che, pur non essendo cospicui, permettevano un ritmo normale ma costante delle attività. Di Ostia era, ormai, conosciuta la sua evoluzione storica e urbanistica dalla prima fondazione della colonia militare marittima all’ultimo secolo della sua vita di porto dell’ urbe. Numerosi erano gli edifici messi allo scoperto dal Teatro, ai templi, ai magazzini, alle case, alle botteghe e moltissimi erano anche le iscrizioni e i prodotti dell’arte romana ritrovati tra le rovine. Era stata scoperta circa una quinta parte della città, una striscia di ruderi tra il Tevere e il grande corso di Ostia fino al Foro. Fu proprio a questo stadio degli scavi che Ostia fu inserita dal governo fascista nel programma dell’Esposizione Universale del 1942, con la ben nota frase del Duce: “Valorizzare Ostia Antica”; ciò permise un notevole balzo in avanti nella scoperta dell’antica città. 22 Guido Calza in uno scritto del 1939, sulla rivista Le Arti, ci presenta così lo stato delle cose: ”Lo scavo di Ostia progettato per l’Esposizione di Roma del Ventennale ed in via di esecuzione è impresa archeologica che non ha precedenti nella storia dell’archeologia italiana e straniera, sia per larghezza di mezzi sia per vastità di esplorazione in brevi limiti di tempo. Si tratta infatti di mettere allo scoperto una superficie di rovine di un chilometro quadrato circa; asportando più di mezzo milione di metri cubi di terra e sfabbricini nello spazio di tre anni, con una spesa complessiva, tra sterri e restauri, di circa sette milioni di lire. Bastano queste cifre a rappresentare la vastità del lavoro, il quale porterà in luce quasi tutta la città antica entro le mura repubblicane; sarà più che raddoppiata la superficie messa allo scoperto durante gli ultimi trent’anni; ciò significa che nel quadriennio 1938-42 si farà più del doppio compiuto fra il 1910 e il 1938. Impresa questa che soltanto in regime fascista si poteva pensare ed attuare”. 23 Il 23 novembre 1937 fu presentato all’Ente EUR il progetto di un piano completo e organico di tutte le opere riguardanti gli scavi di Ostia, ripartito con le seguenti voci: scavo, restauro e assetto archeologico ed estetico delle rovine. 24 Il piano oltre a prevedere un’ampia superficie da scavare consisteva in la realizzazione di una strada panoramica, che costeggiando le mura repubblicane della città permetteva la visione rapida e completa dei ruderi, l’illuminazione dei monumenti principali, per consentire la visita notturna, la sistemazione a parco e giardino dell’intera città con alberi e piante e la rimessa in funzione delle antiche fontane per dare una immagine attendibile di come era l’aspetto originario di Ostia. Inoltre il programma prevedeva l’utilizzo, con adeguati restauri, del Teatro per rappresentazioni classiche all’aperto e la collocazione dei numerosi ritrovamenti (pitture, mosaici, sculture) una parte nei monumenti e negli edifici a cui appartenevano e la restante parte nel nuovo Museo. Il progetto del Museo Ostiense fu, inizialmente, elaborato dall’ architetto Mariano Ginesi sotto la guida e le direttive dell’architetto Gismondi, e successivamente modificato, perché troppo semplice, dall’ufficio tecnico dell’Ente presieduto da Marcello Piacentini. 25 Fattore fondamentale di tutta l’opera di rinascita di Ostia per l’E42 fu l’aspetto simbolico, infatti essendo una “città mediterranea dall’inconfondibile carattere romano e italiano”, 26 essa rappresentò una importante esempio di romanità da utilizzare per mostrare al mondo intero “il vasto quadro della civiltà italiana che l’Esposizione offrirà in mirabile sintesi fino all’avvento del fascismo”.27 Durante la guerra, dal 1940 al 1945, l’area di Ostia fu evacuata e molte opere nuovamente interrate per proteggerle dai bombardamenti e dai furti. 28 Il Calza, che controllò attentamente gli scavi, solo alla fine del conflitto mondiale riuscì a portare a termine alcuni dei programmi iniziati, in quanto morì nel 1946 lasciando a sua moglie Raissa, al suo amico Italo Gismondi e agli altri colleghi il compito di portare a termine la sua opera. Nei successivi capitoli di questo studio esamineremo gli aspetti più decisivi che, negli anni tra le due guerre, determinarono sia per Ostia antica che per l’ambiente culturale romano, innanzitutto, ma anche italiano e straniero una forte influenza sulla formazione del dibattito culturale ed architettonico contemporaneo. Si tratta di un periodo complesso, quello in cui viene ad inserirsi la quasi totale scoperta dell’antica città, durante il quale molti fattori entrarono in gioco, tra cui gli scavi di Ostia antica, che ebbero molta più rilevanza di quanto non si sia fino ad oggi sostenuto per la formazione di importanti figure di architetti.
NOTE CAPITOLO I
1R. Cagnat, V. chapot, Manuel d’Archeologie Romaine, Paris 1917.
2G. Calza, L’importanza storico-archeologica della resurrezione di Ostia, in “Atene e Roma”, Ottobre-Dicembre 1922. Nel bollettino della società italiana per la diffusione e l’incoraggiamento degli studi classici, l’archeologo spiegò quanta importanza aveva la divulgazione delle scoperte archeologiche fatta direttamente dall’esploratore: “A me pare si possano osservare che, se una divisione del lavoro e anzi una specializzazione è divenuta ormai necessaria con la maggiore importanza acquistata da alcune materie, lo scavatore non soltanto non deve abdicare al diritto e al dovere del primo - e per quanto egli può - del migliore commento dei monumenti e documenti trovati, ma deve egli stesso compiere, appena possibile, quell’opera di sintesi che sarà più facile a lui che ad altri a cui necessariamente manca la visione d’insieme. E come non giova ne il silenzio ne il troppo indugio nel render noto ciò che si è scavato, non giova neppure, a me pare, limitarsi ad una arida esposizione di dati e di fatti senza cercare di stabilire il vario rapporto di dipendenza, di casualità, di epoca”.
erano questi gli anni in cui si andava sempre più sviluppando e ampliando l’interesse per l’archeologia, infatti ogni studioso del settore cercava, con scritti, articoli e conferenze, di attrarre l’attenzione sulla propria scoperta per ottenere, così, maggiori finanziamenti. Ostia fu per molto tempo totalmente ignorata dall’opinione pubblica, fino a quando Calza non iniziò la sua attenta e metodica opera di studio e di divulgazione.
3C. Pavolini, La vita quotidiana a Ostia, Roma 1986. “ Ai lati dell’ingresso due botteghe (tabernae) potevano essere date in uso a liberti o schiavi del proprietario, per la vendita al dettaglio (. . .). L’ingresso, che ad Ostia era di solito uno stretto corridoio (fauces) senza vestibolo, immetteva nell’atrio, il tradizionale centro della casa. Dotato di un apertura al centro del soffitto, l’atrio era insieme fonte di luce per gli ambienti circostanti e luogo di raccolta delle acque piovane (. . .), grazie alla vasca centrale (impluvium) comunicante con la cisterna. Ai lati si disponevano le camere da letto (cubicula) e le alae, due vani completamente aperti sull’atrio e forse destinati al culto delle immagini degli antenati. Al fondo dell’atrio, in asse con l’ingresso, c’era il soggiorno o tablinum, (. . .). Ai lati del tablino, il triclinio o triclini (sale da pranzo).
L’intera ala posteriore delle principali domus ostiensi era il risultato di un ampliamento verificatosi nella storia dell’architettura domestica romana a partire dal III secolo a. C., e consistente nell’aggiunta del peristilio (nucleo dell’abitazione ellenistica sprovvista di atrio) al semplice schema originario della casa romana. (. . .) Quest’ultimo, che nel mondo greco era un semplice cortile colonnato centrale, nel trasformarsi in Occidente aveva incorporato l’hortus tradizionalmente situato sul retro della casa, e si era quindi trasformato in un giardino circondato da un quadriportico. Uno dei migliori esempi ostiensi è quello della ricca domus poi abolita per costruire la Schola di Traiano, sul Decumano massimo: il peristilio era dotato di colonne laterizie stuccate e, sul lato d’ingresso, di una fontana a ninfeo e di un pozzo”.
I pochi esempi di domus ritrovati ad Ostia contribuirono, nel periodo tra le due guerre, a sviluppare il contemporaneo dibattito sulla casa mediterranea ad atrio, del quale la domus pompeiana costituiva il fondamento di numerosi studi e altrettante proposte abitative.
4Per un maggiore approfondimento della storia di Ostia antica si vedano i seguenti testi: L. Paschetto, Ostia colonia romana, storia e monumenti, Roma 1912; J. Carcopino, Virgile et les origines d’Ostie, Paris 1919; G. Calza, G. Becatti, I gismondi, G. De Angelis D’Ossat, H. Bloch, Scavi di Ostia, I: Topografia generale, Roma 1953; R. Calza, E. Nash, Ostia, Firenze 1959; C. Pavolini, Ostia, Guide Archeologiche Laterza, Roma-Bari 1983.
5Gavin Hamilton (Lanark 1723 - Roma 1798), pittore e antiquario, dal 1748 trascorse la maggior parte della sua vita a Roma, dove divenne figura di primo piano nei circoli neoclassici. Partecipò a vari scavi archeologici come esperto di marmi antichi e collezionista.
6 Robert Fagan (Londra 1761 - Malta 1816), visse a Roma dal 1784 al 1807, fu ritrattista, pittore di chiaroscuri e, come mercante di opere d’arte, partecipò a diverse campagne di scavo.
7F. M. Martini, Come Ostia risorge attraverso nuovi scavi e restauri, in “La tribuna” 6 Maggio 1928.
Il pontefice affidò l’incarico di eseguire delle ricerche nel sottosuolo all’archeologo Carlo Fea (Oneglia 1753-Ostia 1836), commissario alle antichità del governo pontificio e bibliotecario della famiglia Chigi, che studiò e scavò numerosi monumenti anche a Roma.
8 Rodolfo Lanciani (Roma 1845-1929), archeologo, operò oltre che ad Ostia anche a villa Adriana, al porto di Traiano e soprattutto a Roma. Professore di topografia romana all’università di Roma pubblicò i quattro volumi della Storia degli Scavi di Roma (1902-12), avendo lui stesso seguito i grandi scavi eseguiti negli ultimi anni dell’ottocento. Pubblicò inoltre Forma Urbis, pianta topografica di Roma in età severiana.
9G. Calza, L’archeologia della zappa e del piccone, in “Rassegna Italiana”, Novembre 1926. “ Intorno al 1870 si può dire invece cominci una nuova epoca per l’archeologia del piccone, giacche essa inizia una sua storia gloriosa e feconda di insegnamenti e di risultati per tutti. Ogni paese concorre alla resurrezione del mondo antico, patrimonio comune della umanità che vien diviso fra le varie nazioni perché più facili e rapide ne riescano le ricerche e gli studi, e si vengono formando, con sussidi dello Stato, istituti scientifici allo scopo di esplorare intere località o complessi di monumenti. L’archeologia della zappa non è più soltanto fornitrice di materiale antiquario, ma col raffinare gli istrumenti di ricerca, col mettere a immediato contatto dell’investigatore una innumerevole varietà di monumenti e di documenti, con l’avvezzare alla interpretazione e alla comparazione di varie classi di oggetti, diventa la scuola migliore e la più sicura palestra dei dotti di ogni disciplina”.
10 Sotto il regno di umberto I furono assegnate le terre per la bonifica del litorale ostiense, operata nei primi anni del novecento dai “Romagnoli” della Cooperativa agricola dei ravennati, e dal Comitato nazionale pro Roma Marittima, i quali, risanando il territorio, prolungarono fino al mare l’antica via Ostiense. Per un maggiore approfondimento dell’argomento si veda: L. Rossi, La bonifica degli stagni e delle paludi di Ostia, Roma 1894; G. De Nisi, Ostia; Lido di Roma, Ostia lido 1982.
11Dante Vaglieri (Trieste 1865-Ostia 1913), laureato in lettere nel 1887, conseguì la libera docenza all’Università di Roma in epigrafia latina ed antichità romane. Auditore e poi ispettore nel 1897 nei Musei gallerie e scavi, dal 1901 ebbe la direzione del Museo nazionale romano e dal 1908 fino alla sua morte quella degli Scavi di Ostia.
12L. Paschetto, Ostia colonia romana, storia e monumenti, in “Atti della pontif. Accad. di archeologia, Roma 1912.
13Roberto Paribeni (Roma 1876- 1943) archeologo e storico dell’antichità, fu ispettore e direttore nei musei a Napoli e Roma, in quest’ultima e nel Lazio fu soprintendente alle antichità fino al 1928. Partecipò a numerose missioni e campagne di scavo in Africa e in Asia Minore. Dal 1928 al 1933 fu direttore delle Antichità Belle Arti e nel 1934 successe C. Ricci nella presidenza del R. Istituto di archeologia e storia antica. Pubblicò i risultati dei suoi studi prevalentemente su Notizie degli Scavi e Monumenti dei Lincei.
14Per un maggiore approfondimento della vita dell’archeologo si veda: G. Becatti, Commemorazione di Guido Calza, in “Rendiconti della pontif. Accad di archeologia”, XXII 1946. L. Rocchetti, Calza Guido, in “Dizionario Biografico degli Italiani”, Roma 1974.
15 G. Calza, gli scavi recenti nell’abitato di Ostia, in “Monumenti Antichi dei Lincei”, Roma 1920. “I recenti scavi (1915-1918) in un gruppo di abitazioni nel centro di Ostia, non solo hanno meglio rivelato il tipo e il carattere degli edifici privati ostiensi, ma l’aspetto e la caratteristica particolare della città. (. . .)Due soli fabbricati contiene l’isola. Addossati l’un l’altro sulla via della casa di Diana, essi rimangono contigui per un certo tratto (metri 26), senza però trasgredire con questa contiguità le leggi edilizie in vigore nell’impero dell’età di Nerone. Ciascuno di essi ha infatti un muro proprio, dello spessore di 60 cm (. . .)Prospicienti sulle tre strade descritte, i due edifici hanno fronti anche verso l’interno sopra una grande area scoperta che può ritenersi un cortile-giardino. Da più fatti lo si deduce. Privo di costruzioni per tutta la sua superficie, esso permette agli edifici di prospettarvi delle ampie facciate a finestra, (. . .) non essendo bastevole il solo prospetto su strada alla pianta degli appartamenti. (. . .) Sicché sembra ovvio d’arguire che questa area fosse tenuta a giardino, ripetendosi così per le case di affitto più signorili quella non rara consuetudine antica che si riscontra nei peristili delle case patrizie (. . .). A dare un’idea della funzione e dell’aspetto di questo cortile, può sovvenire il ricorso di alcuni ormai rari cortili chiusi di alcune case private del secolo passato e che riproducono oggi in quelle case popolari dette case modello. Ognuno sa quale funzione pratica - oltre a quella architettonica - abbia siffatto cortile per gli inquilini di condizione meno agiata”.
16 G. Calza, La preminenza dell’edilizia romana, in “Monumenti antichi dei Lincei”, Roma 1915. G. Calza, “Le case d’affitto in Roma antica”, in “Nuova Antologia”, Roma 1916.
17 V. S. M. Scrinari, Gli scavi di Ostia e l’E 42, in AA. VV. “E 42 Utopia e scenario del regime”, Roma 1987, pp. 179-188. “ La pratica ha il seguente procedimento: premessa la convenzione stesa il 13 luglio 1915 tra il principe Giuseppe Aldobrandini ed il Ministero della pubblica istruzione (rappresentato dall’Intendenza di finanza di Roma e dal Paribeni, direttore degli Scavi di Ostia) per l’occupazione temporanea del terreno (ha. 82.31.00), con foglio 5522 di repertorio del 24 marzo 1917 l’Intendenza di finanza attestava che lo stato, con legge 23 giugno 1912 n. 738 autorizzava il Ministero della pubblica istruzione all’acquisto delle terre occupate per la somma di £ 180.000”. Questa documentazione è tratta dall’archivio della Soprintendenza archeologica di Ostia.
18 G. Calza, Assetto e restauro delle rovine di Ostia, in “Atti del III convegno nazionale di Storia dell’Architettura”, Roma 9-13 Ottobre 1938.
19Italo Gismondi, oltre agli scavi di Ostia, collaborò in molte altre campagne di scavo, occupandosi sempre del restauro e delle ricostruzioni architettoniche. Ci restano ben pochi scritti sui suoi studi e sul metodo usato per le ricostruzioni: A. M. Colini, Stadium Domitiani, Ricostruzioni architettoniche di I. Gismondi, Roma Istituto di Studi Romani 1943. I. Gismondi, Le architetture delle tombe monumentali di porta Marina, in “Scavi di Ostia. Le necropoli”, parte I, vol. III, Roma 1958. I. Gismondi, La colimbètra del teatro di Ostia, in “Anthemon. Scritti di archeologia e antichità classiche in onore di Carlo Anti”, Firenze 1955. I. Gismondi, Il restauro dello Strategheion di Cirene, in “Quaderni di archeologia della Libia”, Voll. II, Roma 1951.
Nell’articolo Le origini latine dell’architettura moderna al termine dello scritto di Calza, Gismondi riportò nell’appendice alcune osservazioni di carattere tecnico che gli erano servite di base alle ricostruzioni architettoniche pubblicate nel testo: “Casa in via del tempio - Questo isolato con porticato alto due piani (m. 6,50), dalla pianta risulta che doveva avere dei loggiati di altezza calcolabile in m. 3,50, necessari alla comunicazione dei vari ambienti dato che le scale sono situate alle due estremità del caseggiato. D’altra parte la rovina mi da i seguenti elementi di fatto: altezza del portico, imposta degli archi del portico, forma dei pilastri, altezza e forma delle porte delle botteghe e finestre del primo piano cioè tutti gli elementi della costruzione con le loro proporzioni fino all’altezza del secondo piano; sicché dati questi elementi e la certezza della presenza delle logge superiori ho potuto ricostruire questo caseggiato con un motivo architettonico di arcuazione triplice corrispondente all’asse di una sola arcata inferire impostami dall’altezza minore dei piani soprastanti”.
20Nel 1924 Calza fu nominato Direttore degli Scavi di Ostia, la notizia fu accolta positivamente dall’ambiente archeologico romano. Nel Bollettino dell’Associazione Archeologica Romana, del gennaio dello stesso anno, così fu commentata la nuova nomina: “ Non solo in questi ultimi tempi il Calza ha rimesso alla luce e restituiti, nella più felice maniera, senza offendere i diritti della scienza e appagando il senso estetico del visitatore, dei resti di edifici ostiensi, che sono tra le più importanti e impressionanti testimonianze dell’edilizia antica, non solo sta ora, con fortuna che gli auguriamo sempre più propizia strappando il velo in cui si nascondeva il mistero di Ostia repubblicana; ma nelle illustrazione e relazioni che egli ha pubblicato in vari periodici sulle scoperte antiche e recenti di questa morta città, ha saputo rendere il senso della vita del vetusto porto di Roma con sì profondo intento, che nessuno meglio di lui poteva esser trovato degno dell’alto ufficio”.
21Era in quegli anni fermo proposito di Mussolini vedere alla luce tutti i monumenti e i resti romani dell’età repubblicana. Tale proposta trovò immediatamente alleati, non solo Calza e Gismondi con tutti gli studiosi che si occupavano di Ostia, ma gran parte degli archeologi italiani a cui questo programma offriva enormi possibilità di lavoro; in nome dell’archeologia si poté fare di tutto. Si veda a tale proposito I. Insolera, Roma moderna, Torino 1976.
22G. Calza, Ostia risorge per l’Esposizione Universale di Roma, in “Le Arti”, fasc. IV, Aprile-Maggio 1939.
23 Nel periodo dal 1939 al 1942 l’area scoperta fu raddoppiata rispetto alla superficie scavata fino ad allora, senza questo gigantesco lavoro compiuto da Guido Calza non avremmo avuto oggi il quadro quasi completo di una città romana di età imperiale. Ma questo indubbio dato di fatto non può nè deve farci dimenticare i lati distruttivi di questa impresa archeologica. Si trattò in sostanza di un grande sterro che asportò, in pratica senza documentazione, tutti gli strati di vita, di abbandono e di crollo approssimativamente successivi al livello del II secolo d. C., individuato come corrispondente all’apogeo di Ostia imperiale. Secondo l’esplicita rivendicazione del Calza, inoltre, si soppressero - durante lo scavo e nel corso dei successivi restauri - molti elementi edilizi delle ultime fasi di vita della città, rendendo così ancor più difficile la già complessa interpretazione storica della Ostia tardo-antica. Lo scavo di Ostia, del resto, si svolse interamente in linea con la prassi archeologica dell’Italia di allora, che (con poche lodevoli eccezioni) ignorava il metodo stratigrafico e puntava alla liberazione delle strutture monumentali dall’ “ingombro” dei depositi di terra che le occupavano.
24Marcello Piacentini (Roma 1881- 1960) svolse un ruolo di primissimo piano nell’urbanistica romana e italiana tra il 1910 e il 1960. Fu membro dell’Accademia dei virtuosi al Pantheon dal 1920 e dell’Accademia d’Italia dal 1929. In qualità di sovrintendente all’architettura, ai parchi e ai giardini dell’EUR dal 1936, ebbe, con l’appoggio di Cini ed Oppo, totale predominio sulle scelte, imponendo uno stile monumentale sia all’aspetto urbanistico che a quello architettonico del programma per l’E 42.
25G. Calza, Presentazione di Ostia Antica, in “Corriere della Sera”, 11 febbraio 1938; “Non ci sono più in essa influssi ellenici o ellenistici come a Pompei.: non c’è ancora in Ostia alcun apporto o contaminazione orientale come nelle città romane d’Asia e d’africa. Per questo Ostia ci offre l’immagine fedele di Roma meglio di ogni altra città antica, proprio in quegli elementi che a Roma stessa non sono più riconoscibili: nell’aspetto urbanistico, nelle case, nelle piazze, nelle botteghe, nei magazzini”.
26Ibidem.
27In una lettera indirizzata al presidente dell’Ente, Vittorio Cini, l’archeologo Calza cosi descrisse lo stato delle cose ad Ostia antica nel novembre del 1943: “Mi onoro portare a conoscenza dell’E. V. quanto segue. Il 24 settembre u/s un ordine del comando tedesco del Lido di Roma ha imposto l’evacuazione di tutte le cose ed abitanti del paese di Ostia Antica e conseguentemente anche della Sovrintendenza Scavi nel termine di 24 ore. Si sono quindi dovuti interrompere i lavori di restauro della zona archeologica messa in luce a cura dell’EUR (. . .). Il termine imposto di 24 ore non mi ha permesso di provvedere allo sgombero dell’archivio, della biblioteca
(. . .) . Già prima dell’evacuazione e immediatamente dopo, fu mia cura provvedere a occultare le opere d’arte - sculture e piccoli oggetti di scavo - in parte murandole in parte sotterrandole. Solo un esiguo numero di esse sono ancora nel vecchio museo ricoperte con uno strato di sabbia. Il materiale fotografico e alcuni dei più importanti rilievi e disegni sono stati messi invece in deposito presso il Museo Nazionale di Valle Giulia. Grazie a questi provvedimenti ho il piacere di rendere noto che a tutt’oggi nulla è stato toccato o disperso di quanto apparteneva all’ufficio (. . .). Il documento è depositato all’Archivio Centrale di Stato, collocazione E 42, busta 101, fascicolo 495/11.
Capitolo 2: L’ IMPORTANZA DI UN MUSEO OSTIENSE
1-“ L’Antiquarium Ostiense “
“ Le scoperte allora veramente possono tornar vantaggiose quando le si lasciano nella loro possibile integrità; quando non se ne disperdono i membri; quando, insomma, l’intelligente, nella comparazione e nella attenta disanima di ciascuna parte dei monumenti, può formarsi giusto criterio a pronunziare sulla qualità ed importanza dei monumenti stessi; criterio che, non essendo la privativa di uno solo, dovrebbe sempre trovare gli stessi elementi conservati possibilmente al loro posto”. 1 Con queste parole, scritte nell’opera Le scienze e le arti sotto Pio IX, viene commentato lo scopo per il quale il Pontefice Pio IX, per iniziativa di Pietro Ercole Visconti che lavorò ad Ostia tra il 1855 e il 1870, ordinò la costruzione di un Museo Antiquario di Ostia. L’opera, affidata all’architetto Romiti, iniziò alla fine del 1865 e fu conclusa nel 1868, con un fondo di scudi duemila, e consistette nella trasformazione di una vecchia fabbrica esistente presso il centro della antica città, chiamata il Casone del Sale. In sostanza l’intervento fu la realizzazione di una facciata, ingresso all’edificio, in stile neoclassico, addossata al corpo già esistente. L’idea di raccogliere, sul luogo dei ritrovamenti, i reperti archeologici in un unico museo, invece di disperderli, fu dell’archeologo Visconti che con queste parole spiegò l’iniziativa: “ (...) la istituzione nel centro delle rovine di un museo locale che raccolga tutti gli oggetti provenienti da un solo e medesimo luogo sarebbe un esempio unico e lodevole (...)” Tale proposta fu ancora più importante se si pensa che a quel tempo la ricerca e lo studio delle antichità non erano ancora compiute con criteri strettamente scientifici, e inoltre era d’uso trasportare gli oggetti scavati, dalle statue, ai mosaici, ai semplici reperti d’uso quotidiano, nei pontefici musei romani. Infatti, in realtà, il museo, che si sarebbe dovuto chiamare Museo Mastai, non raccolse mai i ritrovamenti che vennero trasportati direttamente nei musei del Laterano e Vaticano, lasciando ad Ostia solo l’idea della intraprendente e innovativa iniziativa. L’edificio realizzato fu adibito ad ufficio e magazzino. 2 Successori del Visconti furono Pietro Rosa e Rodolfo Lanciani, 3 che, nel 1878, ripresero gli scavi sotto il governo italiano, sostenendo anche loro la necessità di completare la visita delle rovine ostiensi con una raccolta degli oggetti ritrovati. Approvata dal Ministro per l’istruzione pubblica Francesco De Sanctis, fu scelto, come sede dell’Antiquarium Ostiense, il castello di Giulio II, 4 che fino al 1890 accolse nelle sue sale ciò che fu possibile ritrovare. (fig. 13) Un anno prima, nel 1889, era stato inaugurato il Museo Nazionale Romano la cui raccolta di opere fu ampliata con la totale acquisizione di quella ostiense. Ciò fu possibile perché in quel tempo gli scavi di Ostia erano stati interrotti facilitando il trasferimento di ogni cosa a Roma. Nel 1908 venne costituito il nuovo Ufficio degli Scavi di Ostia e il direttore Dante Vaglieri 5 volle riprendere l’iniziativa interrotta ordinando tutto ciò che venne alla luce nei suoi primi tre anni di scavo nell’Antiquario Ostiense presso il castello. Il quale però, raccolto e riordinato in fretta, era più un magazzino archeologico che un museo. Pur essendo molti i reperti ritrovati negli anni successivi, non era ancora possibile realizzare un vero e proprio museo, per cui si continuò a organizzare gli oggetti nelle sale del castello e nel 1912 il Vaglieri incaricò Guido Calza, appena nominato ispettore degli scavi, ad un prima catalogazione, descritta nella Guida di Ostia dello stesso Vaglieri, pubblicata nel 1914. Ne seguì una seconda, più vasta ed organica, nel 1923, come si può osservare nelle fotografie tratte dal Bollettino d’Arte dello stesso anno. Il Museo era stato allestito molto semplicemente in cinque sale nelle quali furono esposti i numerosi reperti di scavo ordinati a secondo dell’epoca in cui appartenevano, sopra piedistalli, mensole, dentro delle vetrine oppure affissi al muro del castello. In realtà il Museo Ostiense collocato nella Rocca quattrocentesca non veniva visitato da tutti coloro che si recavano agli scavi perché troppo decentrato rispetto ad essi, e quindi non svolgeva la funzione di completamento della visione delle rovine. Fu per questo motivo che Guido Calza e Italo Gismondi ripresero l’antica idea di realizzare un museo per la collezione antiquaria nel centro delle rovine alla portata di tutti i visitatori.
2-Il museo di Ostia Antica
Il primo probabile progetto per il museo fu redatto da Gismondi già negli anni venti. Di questo progetto rimangono ad Ostia i disegni di piante, prospetti e sezioni grazie ai quali è possibile ricostruire l’idea iniziale del museo da realizzarsi al centro di Ostia Antica. 6 Il progetto consisteva nell’organizzare intorno ad un cortile centrale, evidenti sono i riferimenti alle domus e alle insulae ostiensi, gli spazzi per la visita dei reperti, gli uffici della direzione, i laboratori e alcuni appartamenti. Il cortile era coperto al piano terra da un lucernario per formare la sala centrale del museo, di cui alcuni ambienti erano collocati al primo piano. Intorno allo spazio centrale si aprivano le varie sale del museo e si affacciavano, al piano superiore, gli uffici e le camere da letto. Anche gli ingressi e le scale, sia sul prospetto principale che su quello posteriore, erano evidentemente ripresi dall’edilizia ostiense. Infatti Gismondi divise le scale dall’atrio, o meglio dall’angiporto, 7 d’ingresso che conduceva direttamente al cortile. Il progetto del museo era previsto nell’antica fabbrica, della quale sarebbero stati conservati solo i muri perimetrali. I prospetti esterni, ricollegandosi alla facciata neoclassica, erano ripartiti da lesene di ordine gigante e marcapiani, completati da un cornicione aggettante. Il 1 Novembre 1934 venne inaugurato da Benito Mussolini il nuovo Museo Ostiense. 8 I lavori ad opera dell’architetto Gismondi e sotto la consulenza del Calza, consistevano nell’adattamento della parte centrale de Casone del Sale, fino ad allora occupato dalla Direzione e dal cantiere degli scavi, trasformato sotto Pio IX, per il Museo Ostiense Pontificio, del quale vennero conservati la facciata neoclassica e l’androne. Nel Bollettino dell’Associazione Internazionale degli Studi Mediterranei Calza spiegò le ragioni che motivarono la creazione di un Museo Ostiense: “E sono gli argomenti che, motivandolo, precisano la funzione e la ragion d’essere di un museo ostiense, il quale non va considerato alla stessa stregua dei vari musei locali; giacché, se questi raccolgono i trovamenti di scavi fortuiti, l’ostiense, invece, riunisce tutto ciò che viene da uno scavo metodico e continuativo di una città singola. E’ infatti evidente l’opportunità di costruire in Ostia stessa, via via che progrediscono gli scavi, quella sua veste artistica e decorativa di cui molti musei hanno voluto sottrarre qualche lembo. Se l’opera d’arte può essere sentita e valutata anche al di fuori dell’ambiente nel quale fu prodotta e nel quale ha vissuto, è però innegabile che esso le comunica un palpito di vita per cui quasi se ne reintegra la sensazione e la funzione e se ne affina la comprensione e lo studio. Più ancora per quelle che non assurgono a vere opere d’arte, ma sono semplici espressioni artistiche.” 9 Il progetto elaborato da Gismondi prevedeva tre sale contigue, ricavate nello spazio occupato dal primo arco del vecchio Casone del Sale, e una più piccola al fianco dell’androne d’ingresso. 10 L’intervento fu realizzato senza chiedere alcun finanziamento alla Direzione Generale delle Belle Arti, spendendo parte degli stanziamenti annuali dati agli scavi di Ostia. Infatti furono utilizzate le stesse maestranze addette agli scavi e l’esecuzione del lavoro fu distribuito durante il periodo di due anni, perché svolto negli intervalli delle campagne di scavo. Inoltre il materiale da costruzione utilizzato era, gran parte, quello di risulta degli scavi; della tegolozza per le pareti murarie e dei frammenti di marmi bianchi e colorati, raccolti per vari anni a tale scopo, per le pavimentazioni. Pur conservando il prospetto e l’androne neoclassici il museo fu progettato con “(... ) la più grande semplicità di linee e di forme, in modo di non turbare, con uno stile troppo diverso, l’insieme della costruzione (...) “.11 Il Calza nel descrivere il nuovo museo racconta del rapporto di collaborazione instauratosi con l’architetto Gismondi, sia per la progettazione che per l’allestimento delle sale. Inoltre commenta criticamente il mondo architettonico del tempo perché poco attento alle necessità di un nuovo tipo di museo: “In tanto profondo rinnovamento dell’architettura, in tanta razionalità di masse e di ambienti destinati a proteggere con opere murarie uomini e macchine, non ci è accaduto infatti di aver conoscenza di musei che fossero stati costruiti con forme diverse dalle tradizionali, neanche nel paese dove tutti gli ardimenti sono permessi; ché, neppure negli Stati Uniti sembra che gli architetti si sian preoccupati di applicare il loro spirito pratico e le loro facoltà inventive, agli ambienti destinati a raccogliere collezioni antiquarie. Ebbene: ci è occorso invece, durante l’esecuzione del lavoro, di sentire la mancanza di invenzioni o applicazioni architettoniche e decorative che rinnovino gli ambienti destinati a musei (...) “ 12 .Il progetto costruito era molto curato per favorire una buona visione delle opere. Le tre grandi sale contigue, divise da due archi, erano illuminate dall’alto con ampi lucernari, essendo possibile aprire delle finestre solo nelle pareti corte delle due sale laterali, che avrebbero dato una scarsa e non corretta illuminazione. Inoltre gli angoli furono realizzati tondi anziché acuti per evitare l’inconveniente, tanto fastidioso al Calza, che una scultura posta nell’angolo di una sala avesse per sfondo uno spigolo vivo. Anche la doppia colorazione delle pareti, una tonalità verdognola nella parte bassa come sfondo alle sculture e un colore crema per il resto della parete, era stata prevista per meglio mettere in risalto le opere esposte.
Gli oggetti più piccoli furono collocati in vetrine a giorno incassate nelle pareti divisorie, dando la possibilità di vedere attraverso di esse le sale contigue, ed evitando l’ingombro delle vetrine e delle bacheche nel centro o sulle pareti dell’ambiente. Difficile problema fu quello di collocare lungo le pareti un gran numero di teste-ritratti prive del busto e del corpo, risolto realizzando una serie di elementi cilindrici semicircolari in muratura, posti al centro delle pareti come se da esse si fossero generati, sui quali furono collocate le teste a differenti livelli. “ L’altezza delle sale, la loro illuminazione, la loro pavimentazione, la scelta del colore delle pareti, dei marmi delle basi di sostegno, delle didascalie sui singoli pezzi, tutte insomma le grandi e le piccole questioni di adattamento e di arredamento furono discusse, vagliate e risolte nel solo intento di far semplice e di far bene, il meglio che noi due si poteva e si sapeva”. 13 Per Calza l’inaugurazione del nuovo museo fu inoltre un importante spunto per divulgare ad un più vasto pubblico l’importanza delle nuove scoperte. Egli, infatti era molto interessato a ricevere il massimo consenso per poter ottenere una maggiore attenzione da parte del governo fascista nei finanziamenti per le imprese archeologiche. Per questo in un suo articolo sull’Illustrazione Italiana l’archeologo impostò il suo scritto esaltando la romanità e l’italianità dei reperti messi alla luce ed esposti nel museo : “ Entrandoci, in questo Antiquarium si fa la conoscenza dei personaggi che vissero nella città, che ne accrebbero i monumenti, che vi cercarono la ricchezza, che ne ebbero il governo, che vi trovarono gli onori. Sono i ritratti di quei cittadini dell’Impero che l’arte romana ha saputo rendere con tanta efficacia di tratti, che vivi ci sembran tutt’ora, e consanguinei tutti, perchè ci si ritrovano particolarità somatiche caratteristiche della razza italiana in genere, e dei tipi regionali in ispecie. Sono i ritratti degli imperatori, delle imperatrici, dei principi e delle principesse di casa imperiale in cui si vedon riflessi che li portarono al dominio del popolo, le preoccupazioni che ne ebbero, la gloria o la decadenza che recarono al loro governo.” 14 Gli scavi proseguirono portando alla luce altri reperti archeologici, nasceva così la necessità di ampliare il museo per poter esporre più materiale possibile. Fu tra il 1934 e il 1937, che l’architetto Gismondi continuò ad elaborare progetti per nuove sale espositive, come ci dimostrano i disegni autografi ritrovati nell’Archivio dei Disegni di Ostia Antica. 15 L’intenzione del progettista era quella di continuare a sfruttare la restante parte del Casone del Sale adibita a magazzino, costruendo delle nuove sale con le stesse caratteristiche di quelle già realizzate. Inoltre, visto che lo spazio per gli uffici amministrativi era stato ridotto, Gismondi progettò, nel 1935, al lato dell’atrio d’ingresso, gli uffici della direzione su due livelli. Ancora oggi questi spazi, pur modificati, sono occupati dagli uffici della Soprintendenza di Ostia. L’ingresso alla direzione fu realizzato, differentemente dal primo progetto di Gismondi, come se fosse il portale d’ingresso di una insula ostiense.
3- Il museo e l’ E 42
Il 23 Novembre 1937 Guido Calza, in una lettera indirizzata alla segreteria generale dell’Ente per l’Esposizione Universale del 1942, così precisa: “In riferimento alla richiesta formulata dal commissariato generale per l’Esposizione universale, e previe intese verbali con il medesimo, mi onoro di presentare il progetto di un piano completo e organico di tutte le opere riguardanti la zona archeologica degli Scavi di Ostia, in accordo con i desiderata espressi dal commissario stesso, piano ripartito secondo le voci seguenti: scavo, restauro e assetto archeologico ed estetico delle rovine”. 16 In questo piano viene inserita la proposta di ampliamento del museo archeologico nell’ambito degli scavi, in quanto era prevista una grande messe di documenti figurati che i nuovi scavi avrebbero dato. L’ampliamento consisteva nel raddoppiare le quattro sale esistenti mantenendo la loro collocazione entro l’antica fabbrica. Il progetto è chiaramente visibile nel disegno 17 autografo di Gismondi che prevedeva un ampio ambiente centrale, con due grosse nicchie nei lati corti, posto tra le tre sale già realizzate e altre tre uguali e simmetriche. Questa nuova versione è quella che tutt’oggi possiamo vedere nel Museo Ostiense, il quale mantiene ancora le volumetrie, la sequenza degli spazi, i soffitti a lucernario, pur con pesanti modifiche fatte tra gli anni ‘60 e ‘70 ad opera dello stesso Gismondi e degli architetti Da Vico e Ricciardi. Oltre a questa versione, mai presentata all’Ente, Gismondi iniziò ad elaborare una seconda proposta di ampliamento del museo, che consisteva nel trasferire l’ingresso principale sul lato destro dell’edificio, utilizzando quello della facciata neoclassica per gli uffici. In uno schizzo volumetrico l’architetto espresse la sua idea iniziale caratterizzata dall’aggiunta, nella parte posteriore della vecchia fabbrica, di un volume con una parete curva. Inoltre l’orientamento dell’organizzazione planimetrica delle sale venne ruotato di novanta gradi e suddiviso in tre fasce, di cui quella centrale corrispondeva all’ingresso, organizzata con un atrio che conduceva ad un ambiente rettangolare molto ampio. Le altre due fasce erano costituite una dalle tre sale già realizzate del museo, mentre l’altra, oltre all’ambiente già descritto con la parete curva, era caratterizzata da uno spazio longitudinale suddiviso in quattro parti. Questa proposta del progetto di ampliamento del museo fu elaborata negli anni successivi, sempre sotto la guida di Calza e di Gismondi, dall’architetto Mariano Ginesi. Dalla documentazione ritrovata nell’Archivio Centrale di Stato riguardante l’ampliamento del museo, si viene a conoscenza dei tempi trascorsi dall’inizio dell’elaborazione del progetto al momento in cui fu approvato, e contemporaneamente alla presenza di una parallela proposta di realizzare un nuovo museo di Ostia. Guido Calza, il 4 Marzo 1940, così scrive alla Presidenza Ente Autonomo Esposizione Universale di Roma: 18 “(... ) Con l’occasione si fa presente anche la necessità di iniziare al più presto l’ampliamento del Museo il cui progetto già da tempo è pronto ma per il quale si attende l’approvazione nella seduta della Commissione Ministeriale che doveva essere tenuta nel gennaio u. s.”. 19 Il giorno 10 dello stesso mese nella riunione indetta presso il Ministero dell’Educazione Nazionale, per esaminare la situazione dei lavori degli scavi di Ostia Antica venne approvato “ (... ) il progetto presentato dalla direzione degli Scavi e redatto dall’architetto Ginesi, per l’ampliamento del museo, salvo ad introdurre semplificazioni nella parte architettonica esterna (... ) 20 “.Infatti nell’Archivio dei Disegni di Ostia antica sono stati ritrovati due disegni, un prospetto ed una prospettiva, che raffigurano una versione intermedia del progetto delle facciate. Gli elaborati presentati dall’architetto Ginesi consistevano in uno studio più approfondito del già descritto progetto di Gismondi, caratterizzato dall’ingresso sul lato destro, l’ambiente con la parete curva, due ampie sale rettangolari di cui una ripartita in quattro settori e, inoltre, il primo piano adibito ad uffici. L’atrio d’ingresso e le sale adiacenti erano illuminati da ampi lucernari. I prospetti esterni, di aspetto moderno, erano in cortina laterizia e rifiniti con un basamento, una fascia terminale e cornici delle porte e finestre in marmo. Il 3 Settembre 1940, in un appunto, l’architetto Marcello Piacentini 21 così commenta i disegni di Ginesi: “ Ho veduto il progettino per il museo di Ostia, e non ne sono rimasto entusiasta. Troppo stacco, inutile, tra la parte nuova e la vecchia. L’ingresso somiglia troppo a quello di un Cinema di una cittadina di Provincia di 40.000 abitanti. Ho pregato Calza di venirmi a trovare; ne parleremo un poco. Ho alcune idee, che sono certo lo persuaderanno. Si tratta di far cosa più di carattere e di ambiente, più aristocratica e insieme più semplice “. 22 In seguito a tale giudizio e ad accordi presi successivamente tra Calza e il Direttore dei Servizi Architettura Parchi e Giardini 23 l’architetto Minnucci 24, il progetto di Mariano Ginesi venne respinto, pur con le varianti richieste in precedenza, “ (... ) allo scopo di avere un edificio che risponda nell’aspetto e nella funzionalità alle idee più moderne in materia di musei (... ) “25; per dare corso allo studio di un nuovo museo in base ai disegni di massima presentati nella riunione avvenuta il 10 ottobre presso il Direttore Generale delle Arti del Ministero dell’Educazione Nazionale. L’idea del nuovo museo era già stata proposta, solo un mese dopo quella per l’ampliamento, in un documento, datato 15 Dicembre 1937, redatto da Guido Calza e Italo Gismondi, indirizzato al Presidente della Esposizione Universale, e allegato ad una planimetria generale di Ostia Antica dove, oltre alla descrizione dell’intero piano, che analizzeremo approfonditamente nel prossimo capitolo, così venne scritto: “Per il nuovo Museo si è scelta una località nel centro delle rovine in prossimità del Tevere e del vecchio Museo che è risultato avere una ubicazione assai adatta alla visita. La sua capacità si è studiata in rapporto ai pezzi già esistenti, a quelli che prevedibilmente verranno ad accrescere la collezione, nonché ad alcuni, attualmente al Museo Nazionale Romano, che è desiderabile ritornino ad essere esposti in Ostia Antica. Per il progetto architettonico che in ogni caso dovrebbe essere di linee assai semplici, potrebbe addivenirsi ad un concorso, o affidarne lo studio all’Arch. Gismondi di questo Ufficio, che sottoporrebbe all’approvazione dell’Ente della Esposizione”. 26 Rispetto alla proposta presentata nel 1937, quella del 1940 prevedeva la realizzazione del nuovo museo, attaccato al vecchio, nell’area tra quest’ultimo e il Tevere con un corpo, definito terrazza sul fiume, che faceva da sfondo al cardo massimo. Il vecchio museo realizzato e la parte rimanente dell’antica fabbrica sarebbero stati trasformati in laboratori e magazzini necessari alla campagna di scavi. Il 31 Gennaio 1941 l’architetto Minnucci trasmise alla Direzione degli Scavi di Ostia la copia del progetto per il nuovo museo che era stato elaborato nell’ufficio dei Servizi Architettura Parchi e Giardini, sotto il diretto controllo di Marcello Piacentini, dall’ingegnere Enrico Lenti. Le copie del progetto, furono analizzate da Calza e Gismondi, prova sono alcuni disegni a matita fatti sui fogli, i quali discutendone con i progettisti decisero alcune modifiche dell’impianto planimetrico. Esistono, infatti, nell’Archivio Centrale di Stato i disegni di due versioni del progetto. 27 La prima consiste, oltre alla trasformazione della fabbrica esistente, in un edificio accostato al vecchio organizzato lungo un asse longitudinale dal quale si distribuiscono le varie sale. Alcuni di questi spazi espositivi erano stati disegnati appositamente per ospitare delle determinate opere. Anche in questo progetto l’illuminazione era prevista dall’alto ed inoltre da ampie vetrate che affacciavano su piccoli patii sistemati a giardino. Il Museo degli Scavi, così venne chiamato sui disegni, era di aspetto molto semplice i cui prospetti intonacati non avevano alcun elemento decorativo ma solo le poche bucature dell’ingresso e di alcune vetrate. In una relazione redatta dall’architetto Lenti il 12 Febbraio 1940, 28 vennero descritte le osservazioni fatte da Calza e Gismondi soprattutto sul modo di esporre i pezzi. Così commenta le osservazioni fatte:
“SALA IMPERATORI - Contrariamente a quello prestabilito hanno deciso di mantenerla, perché gli è molto piaciuta consigliando solo di slargare le navate laterali.
SALA DI MITRA - Discussione sul pezzo da metterci al centro: o un sarcofago o come consigliai la statua del lottatore in riposo. Mitra, essendo stato trovato in un ambiente con luce dall’alto, dovrebbe essere posto in un ambiente apposito con luce simile. Si è pensato creare questo ambiente in fondo alla stanza delle vetrine nell’angolo presso l’edificio vecchio. Ciò completerà molto l’asse trasversale della sala dei sarcofagi.
GALLERIA DELLE STATUE IDEALI - avevano deciso di abolirla perché non l’avevano capita. Si è deciso giustamente di cercare di ridurre la luce proveniente dal giardino, impiccolendo l’apertura superiore ( più simile al peristilio romano ).
SALA DEI RITRATTI ROMANI - si è deciso di mantenere l’ingresso con rampa e modificare l’interno creando invece della galleria ad S due sale affiancate.
MESCITA - Avevano deciso di abolirla ma hanno convenuto essere molto meglio mantenerla.
LAVORI EDIFICIO VECCHIO - Hanno proposto delle modifiche volendo mantenere l’attuale sala del museo per i calchi delle opere all’estero, ed hanno detto di crearci l’appartamento per l’ispettore “. 29
Le modifiche accordate furono elaborate nella seconda versione del progetto che, per quanto riguarda il vecchio edificio, era previsto mantenere la parte del museo già realizzato e trasformare solo la restante fabbrica in magazzini e laboratori. Mentre nel nuovo museo la maggiore modifica fu l’aggiunta di un ambiente circolare, addossato all’angolo del Casone del Sale, detto Sala di Mitra, per il resto tutto rimase pressoché uguale. 30 Nell’agosto del 1941 Guido Calza sollecitò all’Ente l’inizio dei lavori per la costruzione del museo essendo già stati fatti i saggi di scavo per le fondazioni. Infatti, mentre la campagna di scavi proseguiva velocemente portando alla luce una notevole parte dell’antica città, i finanziamenti per il nuovo museo non furono mai stanziati. Il Ministro Bottai 31, in una lettera del 21 aprile 1942, pur considerando la necessità della costruzione del museo, rimandò ad altro momento la sua esecuzione in quanto il costo previsto di lire 2.300.000 non rientrava nelle spese preventivate ed inoltre: “ (... ) le difficoltà di approvvigionamento dei materiali e l’instabilità dei prezzi del mercato, dipendenti dalle attuali contingenze, consigliano di rinviare l’esecuzione dell’opera, almeno sino a quando potranno essere ripresi con ritmo normale, i lavori dell’Esposizione, che sono connessi con quelli suindicati (... )”. 32 Il nuovo museo non venne mai realizzato ed ancora oggi, pur con lievi modifiche , la collezione dei bellissimi reperti ritrovati negli scavi è conservata nelle sale del vecchio museo organizzato ed allestito in modo certo inadeguato per le preziose opere che ospita.
NOTE CAPITOLO II
[1]P. Petri, Le scienze e le arti sotto Pio IX, Roma 1860
2 Le notizie fin qui riportate sono tratte da due testi scritti da Guido Calza :
L’Antiquarium Ostiense” nel Castello di Giulio II della Rovere, in “ Bollettino d’Arte”, Roma 1923 ;Il Museo Antiquario di Ostia , in “ Bollettino dell’Associazione Internazionale degli Studi Mediterranei” , Roma Agosto- Settembre 1934, pp. 65-86
3Cfr. nota n. 8 capitolo I
4Il Castello fu iniziato nel 1483 per volere del Cardinale della rovere, poi Papa Giulio II , nel luogo dove Gregorio IV ( 827-844) costruì una cittadella fortificata chiamata "Gregoriopoli”. La costruzione è generalmente attribuita a Giuliano da Sangallo in base ad un passo del Vasari, ma sull’architrave della porta è inciso il nome dell’ architetto fiorentino Baccio Pontelli. La Rocca posta a difesa di Roma sull’ultima curva del Tevere, ha la forma di un triangolo scaleno con una torre circolare a ciascuna estremità. Le sale interne furono decorate da Baldassare Peruzzi e Cesare Magni da Sesto. Le notizie qui elencate, tratte dalla guida agli scavi di G. Calza e G. Becatti, Ostia, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, Roma 1949, ( XIII edizione) , sono state descritte dall’arch. Italo Gismondi il quale tra il 1939 e il 1940 seguì l’opera di restauro del castello caratterizzata principalmente dalla demolizione di alcuni ambienti che occupavano le piazze d’armi, costruiti durante il XVIII secolo, ponendo così in luce quasi tutta la merlatura originaria. Si veda per un maggiore approfondimento della storia del castello : Floriani Squarciapino, La Rocca di Giulio II ad Ostia Antica , in “ Studi Romani” , XII , 1964, pp. 407 e sgg.; AA.VV. , Il ‘400 a Roma e nel Lazio- Il borgo di Ostia da Sisto IV a Giulio II , Roma 1981 ; V. Broccoli, Il sistema fortificato tiberino e le sue infrastrutture nel Medioevo- I problemi di difesa , in “ Archeologia Laziale” , VII, 2 , Roma 1986, pp. 220 e sg.
5Cfr. nota n. 11 capitolo I
6I disegni del progetto sono conservati nell’Archivio dei Disegni della Soprintendenza di Ostia Antica ( A.D.O.A.) nella cartella con dicitura : “ Museo e Uffici di Ostia”, collocate nel bancone C, cassetto 8.
7L’angiporto era , nelle insulae ostiensi, il passaggio coperto che metteva in comunicazione i due fronti dell’edificio, quello sulla strada e quello sul cortile. Gismondi ripropone nel suo progetto questo ambiente con le stesse caratteristiche spaziali di quelli antichi e cioè un lungo corridoio su cui si affacciavano l’ingresso agli appartamenti del pianoterra che nel museo erano gli uffici.
8L’avvenimento ebbe notevole risonanza grazie ai numerosi articoli scritti sui quotidiani di tutta Italia e anche esteri. Naturalmente l’inaugurazione del nuovo museo degli scavi di Ostia fu un evidente pretesto per celebrare l’operato del potere fascista. In un articolo M. Lizzani con lo pseudonimo di Marliz, sulla Tribuna del 21 ottobre 1934 sottolineò l’importanza degli scavi ostiensi e del museo perché facenti parte del programma mussoliniano dell’espansione di Roma dai Colli al Mare : “Roma nella sua struttura urbana va assumendo l’espressione della storia politica e sociale della sua origine. Da un lato il suo meraviglioso futuro Lungomare attraverserà il Laurentino per risalire , con uno snodo laterale, il tuscolano, segnando così i traguardi delle prime conquiste e del predominio dei popoli del Lazio, dall’altro si accosta ai suoi porti marittimi vestigia mature di una avanzata conquista nei rapporti politici e commerciali dell’oltremare. Topograficamente , dunque la nuova Roma segue tale sviluppo con ritmo incessante...”
9Guido Calza, Il museo Antiquario di Ostia, in “ Bollettino dell’Associazione Internazionale degli Studi Mediterranei “ , Roma Agosto- Settembre 1934, pp. 65-86. Nel testo l’archeologo elenca inoltre la collezione degli oggetti esposti nel museo descrivendoli dettagliatamente.
10Cfr. nota n. 6.
11Cfr. nota n. 9 .
12Ibidem.
13Ibidem.
14G. Calza, Il nuovo Museo Romano di Ostia Antica, in “L’Illustrazione Italiana”, Milano 11 novembre 1934 , pp. 752-753. Anche in questo articolo come in altri l’archeologo, con una evidente nota polemica, richiede la restituzione dei reperti archeologici di cui il Museo Nazionale Romano si era impossessato negli anni precedenti : “ Ebbene basterà ridare i trenta pezzi che quest’altro Museo romano raccoglie, e dei quali non c’è più ragione sia privata Ostia, che fa parte ormai di Roma anche per comodità e facilità di accesso, per fare dell’Antiquarium Ostiense una preziosa e singolare raccolta d’arte che magnificamente completa la visione e la comprensione delle rovine. “
15Cfr. nota n. 6.
16 Nella lettera, collocata nell’Archivio Centrale di Stato ( A.C.S. EUR- Servizi Artistici- Busta 934, Scavi ed Antichità, Fasc. 8618) intestata : “Progetto di Scavo e sistemazione di Ostia Antica in occasione dell’Esposizione Universale di Roma”, l’archeologo descrive dettagliatamente tutte le voci riguardanti il nuovo programma per gli scavi. Sotto la voce “ Museo Archeologico” egli scrive : “In previsione dei trovamenti di sculture e pitture nei nuovi scavi, alcuni dei quali in ogni modo si cercherà di lasciare tra le rovine , è necessario l’ampliamento del Museo Archeologico, già esistente nel centro delle rovine. Si procederà quindi a raddoppiare le quattro sale del Museo ciò che sarà sufficiente ad ospitare le vecchie e le nuove collezioni antiquarie. Il costo dell’ampliamento viene stimato in lire centomila.”
16Cfr. nota n. 6.
17Vittorio Cini nato nel 1885 a Ferrara , conte di Monselice, senatore dal 1934 al 1943, fu presidente dell’Ente EUR fino al febbraio del 1943 quando fu nominato ministro delle comunicazioni nell’ultimo governo Mussolini.
18A.C.S. -EUR, Servizio Tecnico, Busta 304 , Lavori, fasc. 4913.
19Cfr. nota n. 19.
20Cfr. nota n. 24 del cap. I. Anche per il progetto del Museo di Ostia Piacentini influì , il più possibile, sulle scelte progettuali, segno della totale egemonia che ebbe su tutto il programma per l’Esposizione.
21A.C.S., EUR , Servizi Artistici, Busta 934, Scavi ed antichità, fasc. 8618.
22Il Servizio Architettura Parchi e Giardini ( S.A.P.G.) fu costituito dall’Ente nel 1937 ed ebbe un controllo su tutti i progetti per l’E42; infatti era solito intervenire direttamente sulle varianti di progetto e sugli esecutivi ed in alcuni casi forniva vere e proprie alternative rispetto alle soluzioni proposte dall’esterno. Il SAPG era organizzato in cinque uffici : Piano Regolatore, Sviluppo progetti, Parchi e Giardini, Ufficio Urbanistico e Ufficio Affari Generali.
23Gaetano Minnucci fu assunto dall’Ente EUR nel marzo 1937 in qualità di capo dell’Ufficio Architettura Parchi e Giardini; in funzione del suo titolo progettò il palazzo dell’Ente e il Villaggio operaio. Solo nell’ottobre 1939 fu nominato Direttore dei Servizi nomina che durò fino al 1943.
24La lettera firmata da Minnucci fu indirizzata all’Onorevole Oppo che concordò sulla scelta fatta. A.C.S., EUR, Servizio Architettura Parchi e Giardini, Busta 841 , Costruzioni, fasc. 7142.
25A.C.S:, EUR , Servizi Artistici, Busta 934, Scavi ed Antichità, fasc. 8618.
26La prima versione del progetto di Enrico Lenti è stata trovata anche all’Archivio dei Disegni di Ostia Antica (A.D.O.A.). Tutti i disegni sono copie su carta e firmate dall’Arch. Minnucci oltreché dall’ ingegnere Lenti.
A.C.S., EUR, Archivio Disegni, S. 12/ 2. A.D.O.A., Museo e uffici di Ostia, banc. C, cassetto 8, cart. 1.
27Così introdusse le osservazioni fatte durante la riunione :” Erano presenti il prof. Calza , L’arch. Gismondi e due archeologi ( non rammento il nome , un uomo ed una signora) che saranno addetti all’ organizzazione del Museo. Avevano preparato una serie di osservazioni in rapporto essenzialmente alla mostra dei prezzi. Queste osservazioni erano concretate in appunti scritti ed in un abbozzo di modifiche della pianta. Dopo che mi ebbero esposte le loro osservazioni, gli esposi i criteri informatori che ci avevano guidato nella redazione del progetto e feci loro vedere delle prospettive a penna che illustravano qualche ambiente.”
28A.C.S., EUR, Servizio Architettura Parchi e Giardini, Busta 841, Costruzioni, fasc. 7142.
29Alcuni disegni della seconda versione del progetto per il Museo di Ostia sono stati erroneamente attribuiti da Valnea Santa Maria Scrivari nello scritto- Gli scavi di Ostia e l’E42, sul catalogo della mostra “E42- Utopia e scenario del regime”, all’arch. Marcello Piacentini il quale indubbiamente influenzò il progetto , ma non fu lui a firmarlo e a redigerlo. Il progetto fu sicuramente il risultato di una attenta collaborazione tra l’ Ufficio Servizi Architettura Parchi e Giardini rappresentato dall’ing. Enrico Lenti e la Soprintendenza agli scavi di Ostia con l’archeologo Guido Calza.
30Giuseppe Bottai (1895-1959) Governatore di Roma dal 1935, ebbe molta influenza nell’ambiente culturale di Roma avendo egli partecipato ai movimenti di avanguardia romani. Partito volontario in Africa Orientale fu nominato governatore di Addis Abeba nel maggio del ‘36. Fu successivamente Ministro dell’Educazione nazionale.
31Cfr. nota n. 29.
Capitolo 3: L’E42 E GLI SCAVI DI OSTIA ANTICA
1-Ostia simbolo della Romanità
“Se a Roma nel 1942 per l’Esposizione universale i visitatori potessero venire dal mare, approdare presso a poco come Enea sulla riva di Ostia, visitare i vasti ruderi repubblicani e imperiali della città e del porto, poi giungere ai palazzi, alle piazze, ai portici, al lago, ai giardini dell’esposizione, e infine all’arco di costantino, al Colosseo e a Roma, capirebbero Roma e la sua storia e civiltà meglio che facendo, come faranno, il cammino inverso e più comodo. Ostia antica infatti, coi nuovi scavi iniziati da appena venti mesi, su una larghezza di circa trecento metri e una lunghezza di quattrocento, riappare come un ricco arioso adorno e fiorito quartiere dell’Urbe”. 1 Con questa introduzione scritta nel 1940 sul Corriere della Sera Ugo Ojetti, mise in evidenza l’interesse che ebbe il fascismo nei confronti di Ostia, la quale entrò a far parte del grandioso disegno mussoliniano per la nuova Roma imperiale. Infatti l’antica città, non solo fu inserita nel programma di scavi che il governo fascista intraprese per incentivare la rinascita della romanità, come origine della stirpe italica, ma fu anche coinvolta nel piano urbanistico di espansione di Roma verso il mare. 2 L’idea di organizzare a Roma l’esposizione universale fu proposta per la prima volta a Mussolini nel 1935 da Giovanni Bottai. La zona scelta, dopo varie alternative, era quella delle Tre Fontane, tra Roma ed Ostia, con l’intenzione di valorizzare le vicine località di Castel Fusano, del Lido e di Ostia Antica, come lo stesso Duce aveva detto in un discorso del 1925 al Campidoglio: “La terza Roma si dilaterà sopra altri colli, lungo le rive del fiume sacro sino alle spiagge del Tirreno”. Così il giornalista Ugo Ojetti commenta brevemente i fatti che determinarono la rinascita dell’antica città : ” Per non so quanti anni la dotazione per gli scavi di Ostia Antica è stata, credo, di ventimila lire. Quando il Duce, affidata al senatore Vittorio Cini l’Esposizione Universale del 1942, andò con lui a Ostia, l’idea di far scoprire per quell’anno tutta l’antica Ostia gli parve un sacro dovere. Egli che era il più romano di noi Romani, si accese per quell’idea e l’ardore si comunicò facilmente a Giuseppe Bottai. Da allora le notizie sul progresso di questi scavi, sui continui ritrovamenti di edifici, di sculture, di pitture, di mosaici devono dalla Direzione delle Antichità o dall’ufficio di Vittorio Cini arrivare subito a Palazzo Venezia. La spesa totale sarà, al massimo, di dieci milioni. La Direzione degli Scavi è stata elevata da Bottai a Soprintendenza. “ 3 L’obbiettivo principale a cui l’esposizione mirava è chiaramente espresso in un articolo scritto da Guido Calza sulla rivista l’Urbe: “Raddoppiare l’area scoperta significherà offrire ai visitatori dell’Esposizione Universale una visione ben chiara e di indiscutibile interesse archeologico ed estetico, di una città romana imperiale che completa in modo meraviglioso il volto di Roma antica. E’ infatti Ostia che ci dà la cornice, l’inquadratura indispensabile per risentire e rivedere il cittadino romano intento alle sue occupazioni di ogni giorno. E’ Ostia che ci prospetta le questioni più attuali di urbanistica e di edilizia urbana e talvolta ce ne presenta le soluzioni geniali. E’ Ostia che ci fa conoscere le origini romane di molti motivi architettonici e decorativi, erroneamente ritenuti originali di formazioni artistiche post-romane. E’ Ostia che ci dà quel che neppure Pompei od Ercolano possono darci , perché in parte lontane in parte anteriori al dinamismo sociale ed urbanistico dei tre secoli dell’impero, in cui invece la vita moderna ritrova le più profonde radici”. 4 Il lancio di Roma a livello europeo e mondiale determinò la creazione di un nuovo centro urbanisticamente efficiente che, come era già avvenuto all’epoca di Anco Marzio ( VI sec. a.C. ), era proiettato verso il mare dove l’antica città di Ostia rappresentava soprattutto una radice simbolica, un fondale storico significativo che doveva entrare a far parte dell’Esposizione. Nel febbraio del’37 il Ministro dell’Educazione Nazionale Bottai, in una lettera indirizzata al senatore Vittorio Cini, propose l’inserimento nel programma dell’E42 degli scavi della prima colonia mediterranea di Roma. 5 L’8 Luglio 1937 l’onorevole Oppo6 in una lettera intestata a Guido Calza 7 comunicò, in via confidenziale, l’approvazione del programma di massima per l’esposizione nel quale era stato inserito il progetto relativo agli scavi ostiensi. Successivamente il Ministro Bottai pose delle chiare condizioni necessarie per la esecuzione del progetto di ampliamento degli scavi di Ostia. La prima consisteva nella quota da stanziare per il finanziamento dei lavori che era stato valutato in lire 2.500.000. La seconda stabiliva la data d’inizio dei lavori, il 1 Novembre 1937, con lo sterro della zona a sud del Foro. Il terzo punto che doveva essere preso in considerazione era quello della possibilità di creare un secondo ingresso agli scavi più vicino al Lido all’altezza del centro monumentale della città e inoltre si sarebbe dovuto provvedere alla realizzazione di aree verdi. Infine oltre ai lavori, che sarebbero dovuti durare tre anni e mezzo, la direzione degli scavi di Ostia avrebbe dovuto curare la raccolta, la catalogazione e l’esposizione nel Museo ostiense, convenientemente ampliato, del materiale rinvenuto. 8
2-Il nuovo programma di scavi
Fu, quindi, lo stesso Bottai che stabilì i punti principali del progetto di un piano completo e organico di tutte le opere riguardanti la zona archeologica di Ostia, che fu redatto e presentato all’Ente il 23 Novembre da Calza e Gismondi con accluso il preventivo e una planimetria. 9 Il piano fu ripartito secondo le seguenti voci: scavo, restauro ed assetto archeologico ed estetico delle rovine. L’area di scavo scelta era quella del centro monumentale della città perché più ricca e meglio conservata ed inoltre ben visibile dalla strada panoramica che costeggiava l’area archeologica; in totale era previsto lo scavo di circa 25 ettari di terreno, e come scrisse Calza: “ (... ) la grandiosità dell’area scoperta in confronto alla piccola parte ancora inesplorata risulterà maggiormente in quanto la sistemazione di tutta la zona a prati ad alberature e a giardini chiuderà le rovine in una ridente ed attraente cornice costituendo una sistemazione non provvisoria ma definitiva. L’opera sia dal lato archeologico sia dal lato estetico risulterà certo una delle grandi imprese di sistemazione urbanistica-archeologica, attuate dal Regime, e susciterà universale interesse al pari di quelle compiute a roma, a pompei ed a Ercolano”. 10 La voce del programma riguardante il restauro e la sistemazione delle rovine prevedeva opere di consolidamento, di ripristino, di rialzo di pezzi caduti, di distacco o rimessa in situ di mosaici e di dipinti, in modo che la visione monumentale della città antica risultasse il più possibile chiara ed integra. Inoltre piante, giardini, fontane, illuminazione, opere d’arte lasciate tra le rovine avrebbero completato l’aspetto estetico di Ostia. Infatti si pensò di rimettere l’acqua in tutte le fontane antiche distribuendola in tutta la città esplorata sia per ravvivare i ruderi sia per irrigare le zone verdi. Anche per l’illuminazione fu programmato un sistema che avrebbe permesso la visita notturna alla città antica. Il Calza prese in considerazione, nel suo programma, il problema del collegamento di Ostia con l’Esposizione che sarebbe stato garantito dalle strade già esistenti ( via Imperiale, via di Castel Fusano, Autostrada ), prevedendo inoltre sia la deviazione della via Ostiense, per un tratto di circa 1000 metri, lungo il margine delle rovine per avere una visione panoramica di esse, sia un nuovo ingresso alla zona monumentale in corrispondenza del teatro, costituito da un piazzale con parcheggio e distante appena 200 metri dal cardo massimo. Per il teatro erano previste rappresentazioni di opere classiche nel periodo dell’esposizione, per questo l’archeologo programmò, allo scopo di migliorare l’accesso e l’aspetto esterno, il rialzamento di quattro o cinque arcate del portico esterno, delle quali erano già visibili elementi della muratura. 11 La voce riguardante le opere di giardinaggio, alberatura e sistemazione a prato stabiliva la creazione di giardini alla romana sia nel piazzale delle Corporazioni che in alcune case ostiensi e l’aggiunta di piante d’alto fusto e di rampicanti tra le rovine. Il Calza si impegnò anche a pubblicare una monografia sulla città per documentare tutto il materiale monumentale ed artistico che sarebbe venuto alla luce nei nuovi scavi. 12 Nella planimetria generale presentata insieme al programma 13 e firmata da Calza e Gismondi, l’area di scavo fu suddivisa in zone a seconda di come intervenire: zona dei nuovi scavi, zone a prato, zone alberate e inoltre tracciata la strada panoramica con il nuovo ingresso. 14 Pur essendo stato approvato il progetto, i tempi burocratici non permisero un immediato inizio dei lavori. Nel frattempo la notizia dell’inserimento degli scavi di Ostia Antica nel programma dell’E 42 venne ampiamente divulgata attraverso la stampa italiana e straniera. Lo stesso Calza scrisse numerosi articoli e fece numerosissime conferenze che furono utili non solo alla presentazione dell’opera da intraprendere ma anche ad una mirata propaganda politica per divulgare lo sviluppo dell’attività italiana in ogni campo e in particolare la rinascita della romanità. Così Alberici, commentando gli articoli di Ojetti, scrisse: “Perché la propaganda riesca efficace occorre sia (... ) poggiata sulla diretta visione di quanto forma oggetto di essa, altrimenti resta freddo notiziario, puramente materiale, senza quel commento che lo spirito formula spontaneo in presenza di cose belle e suggestive (... ). Occorre invece fare di più, e innanzi tutto, visitare, vedere, esaminare, poi scrivere. La propaganda per l’E 42 (... ) nel cui quadro Ostia Antica rappresenta veramente un elemento di primissimo piano. Specialmente all’estero, diciamo, perché si deve aspirare ad avere di là il più vivo interessamento all’E 42 e la conseguente più nutrita affluenza di visitatori: ma per la conoscenza di Ostia Antica la propaganda è necessaria anche tra noi, e non esito ad aggiungere anche in Roma. Sembrerà azzardato, ma è corrispondente a verità che, in relazione ai suoi abitanti e particolarmente alle masse colte, ossia a quanti - artisti, ingegneri, letterati, giornalisti, intellettuali in genere - dovrebbero interessarsi alle nuove conquiste archeologiche, una percentuale modestissima conosce de visu Ostia Antica. (... ) Una prima visita ad Ostia Antica lascia un senso di stupore: si rimane sorpresi della sua vastità e della sua struttura, della solennità che si diffonde pur nella rovina, della sincerità con cui rappresenta la romanità; (... ) i mosaici, gli affreschi degli ambienti pubblici e privati, gli oggetti raccolti di uso comune ecc., vi commuovono nella constatazione che la vita di allora era assai vicina a quella di oggi (.. )”. 15 Il preventivo di spesa per l’attuazione delle opere elencate precedentemente ammontava, rispetto a quello iniziale, a lire 10.500.000 di cui si sarebbe fatto carico l’Ente Autonomo “Esposizione Universale di Roma”, il quale avrebbe provveduto al controllo dei tempi e modalità di esecuzione dei lavori. Inoltre, come venne precisato in un promemoria del Febbraio 1938, 16 che stabiliva le mansioni e le responsabilità tra il Ministero dell’Educazione Nazionale e l’Ente, la progettazione delle opere, e la direzione della loro esecuzione fu affidata alla Direzione degli Scavi di Ostia sotto la vigilanza e la direzione del Ministero. al quale sarebbe spettata la responsabilità tecnico-artistico-scientifica delle opere. L’Ente, durante l’esposizione, avrebbe potuto usufruire della zona monumentale di Ostia Antica sia per le visite agli scavi, sia per gli spettacoli, feste ecc.; quindi anche gli introiti sarebbero stati devoluti all’Ente stesso. L’8 Marzo 1938 venne assegnata da Cini l’indennità mensile al professore Guido Calza e all’architetto Italo Gismondi. 17 Nello stesso mese i primi soldi per finanziare i lavori arrivarono ad Ostia. 18 I lavori iniziarono immediatamente e grazie ai due validissimi personaggi furono eseguiti velocemente, con precise e documentate relazioni settimanali, ma soprattutto con grande attenzione sia agli aspetti prettamente scientifici e culturali sia a quelli estetici e turistici. Fu, infatti, un noto studioso tedesco Karl Lehmann-Hartleben che, in un suo articolo sulla rivista Roma, spiegò l’importanza e il valore della resurrezione dell’antica città: “Ostia dopo le recenti scoperte è diventata, anche per la storia delle necropoli romane, quello che era già divenuta per la storia dell’architettura edilizia: cioè un punto di partenza per tutta una nuova fase di conoscenze scientifiche. Unicamente un proseguimento metodico dello scavo nella città ci potrà dare l’immagine perfetta di una città italiana e romana dell’età imperiale, e contemporaneamente fare risorgere una visione della Roma imperiale nei suoi quartieri di negozi ed abitanti. Questo risultato in Roma stessa non è possibile, perché la vita ininterrotta e la rinascita moderna l’hanno distrutta. Ma per noi uomini del 1900 l’aspetto della vita economica, sociale e culturale delle masse della popolazione non è meno un documento essenziale della Romanità che la magnificentia urbis ora illustra nei grandiosi lavori di isolamento dei Fori imperiali, di Castel sant’Angelo, e fra poco del mausoleo d’Augusto. E difatti non è solo il completamento di una immagine già nota nelle linee generali che noi aspettiamo dagli scavi futuri di Ostia, ma anche la soluzione di problemi importantissimi prima ed altrove non chiariti. Sicuramente un’indagine metodica fornirà con il progresso futuro dello scavo elementi importanti per la conoscenza delle fasi intermedie. E cioè questo significa, che esiste la speranza di risolvere ad Ostia stessa i problemi dell’origine e dello sviluppo anteriore dell’architettura specifica delle insulae, cioè di rivelare un’immagine giusta anche della Roma di Silla e Cicerone. Infine, solo uno scavo complessivo di Ostia potrà fornirci conoscenze sempre più approfondite delle condizioni sociali, spirituali, religiose ed artistiche di Roma imperiale, come altrove non sarà possibile. (... ) Non soltanto il mondo scientifico, ma anche il mondo colto nel più ampio senso della parola, aspetta con attenzione e con grande speranza i frutti futuri degli sforzi ammirabili dello scavatore di Ostia, che, secondo le speranze di questi ultimi due decenni di scavo, non mancheranno di rilevare una immagine complessiva ed impressionante della roma imperiale stessa.” 19 In una relazione riassuntiva degli scavi20 del 12 Giugno 1939 furono elencate le seguenti notizie riguardanti i lavori: il programma di scavo fu contenuto in quattro lotti di lavori in appalto con partenza dall’asse costituito dalla via degli horrea Epagathiana e dal suo proseguimento costituito dal tracciato occidentale del pomerio ( il confine di ponente dei vecchi scavi ). Il primo ed il terzo lotto si svilupparono ad ovest di questo asse, il secondo e il quarto ad est. Tra il marzo del 1938 ed il giugno del 1939 furono scavati mq 60.000 di superficie asportando mc 22.000 di terra con l’impiego di operai per circa 62.000 ore di lavoro. Furono messe in luce 14 nuove vie delle quali tre con porticati; quattro templi e cinque santuari, undici edifici, tre terme, due grandi magazzini per il grano, complessi di abitazioni civili e circa 138 botteghe inserite nei caseggiati. Tra gli episodi di particolare interesse artistico si possono enumerare 123 ambienti con dipinti parietali, 180 pezzi di statuaria e di rilievi marmorei, 101 pavimenti a mosaico, centinaia di monete d’argento e di rame. Lo scavo dei lotti in appalto si esaurì alla fine del 1939 mentre proseguì oltre il limite prefissato l’attento scavo in economia. In questa fase il Calza propose anche la verifica statica delle situazioni monumentali che sarebbero dovute essere aperte successivamente al pubblico.
3-Il parco archeologico
Per quanto riguarda il piano di corredo arboreo e floreale, previsto nel programma generale, dopo una prima proposta fatta da Calza e Gismondi 21, fu incaricato l’architetto Michele Busiri Vici 22 con una lettera 23 del 24 Ottobre 1939 nella quale venne richiesta massima sollecitudine possibile essendo i tempi molto stretti. Il progetto, redatto in collaborazione con la direzione agli Scavi di Ostia, con i Servizi Architettura Parchi e Giardini dell’Ente e con i tecnici che si occupavano dell’illuminazione e dell’impianto d’irrigazione, sviluppava le indicazioni già proposte sulla planimetria generale che suddivideva l’area archeologica in zone: a giardino, a prato e bassi cespugli, a prato coltivato, a prato naturale, ad alberi di alto fusto. L’architetto Busiri Vici, come si può leggere nella fitta corrispondenza tenuta con l’Ente, iniziò una serie di riunioni e sopralluoghi in cui sottopose le prime idee sulla sistemazione dei giardini. Infatti trattandosi di piantagioni che avrebbero dovuto “commentare e completare con elementi di vita, di forma e di colore un insieme raffinatamente artistico e di carattere tutto particolare come gli Scavi di Ostia, occorre studiare le piantagioni sul posto con molti sopralluoghi nei quali si debbono eseguire fotografie, rilievi e schizzi prospettici in gran numero da riportare e sviluppare poi in studio sulla carta”. 24 Nell’Archivio dei Disegni di Ostia Antica è depositato il progetto per le sistemazioni arboree e per i giardini nella zona Ostia Antica scavi, datato il 20 Febbraio 1941, 25 in cui l’architetto illustrò le sue idee indicando su una planimetria generale le piantagioni da effettuare e le zone dove collocarle. Oltre a due planimetrie l’architetto presentò un gran numero di disegni, di cui non è stato possibile allegare una documentazione fotografica, realizzati con acquerello colorato su cartoncino e raffiguranti scorci prospettici di parti della antica città arricchite da arbusti, rampicanti, alberi ed aiuole. 26 Lo stesso Busiri Vici chiarì, nella relazione, i concetti generali del progetto scrivendo: “ Ostia antica com’è attualmente ha una sua fisionomia ed un fascino particolari dovuti sia alla posizione presso il mare, sia ai criteri urbanistici ed al carattere con cui era sorta e si era completata, abbellita e trasformata al tempo dei romani, sia all’impronta che i secoli scorrendo lentamente sulla città distrutta e dormente le hanno dato, sia infine al magico risveglio dei sapienti restauri voluti dai papi prima e dal governo italiano poi, con ritmo particolarmente accelerato sotto l’animatore regime fascista. Occorre ora, a mio parere, commentare leggermente le suggestive rovine, dai toni caldi del cotto corroso predominante, col verde dei prati naturali, con piante fiorite e con alberi di gusto adatto e raffinato che, pur essendo scelti in gran parte fra le specie tradizionali delle nostre coste tirrene e pur ricordando elementi di giardinaggio del tempo dei romani, non abbiano l’aria di voler mostrare quali erano i giardini e le piantagioni di quell’epoca in cui nella città ferveva la vita. Se così si facesse, si stabilirebbe uno squilibrio, evidente allo spirito e all’occhio dei visitatori, tra i ruderi che più non accolgono gli abitanti e le piantagioni ed i giardini accurati che fanno pensare ad una vita in pieno fervore; mentre con il commento sapiente e leggero di piante tradizionali si crea un magico connubio tra la vita vegetale e le rovine, connubio che con il suo silenzioso lirismo parla potentemente alla fantasia ed allo spirito dei visitatori”. 27 Nella relazione, 28 elaborata dall’architetto Busiri Vici, furono stabiliti i caratteri e i criteri base delle piantagioni per le differenti zone in cui fu suddiviso tutto l’insieme delle sistemazioni arboree e dei giardini. Le zone erano quattro e consistevano in una periferica compresa tra l’autostrada e la linea delle antiche mura, che sarebbe stata sistemata a prati naturali con gruppi irregolari di pinus pinea collocati anche lungo la strada panoramica. Fu scelto questo tipo di albero perché, come scrisse lo stesso Busiri Vici: “ (... ) è veramente l’essenza più adatta da usare in questa zona sia per il suo inconfondibile carattere italico (... ), sia perché, mentre inquadra in modo meraviglioso il paesaggio, sviluppando la chioma ad ombrello verso il cielo, lascia libera, tra i fusti, la vista sulle rovine che non hanno mai grandi altezze”. 29 Nella seconda zona, intermedia tra la città e la campagna, fu ritenuto opportuno piantare una vegetazione di passaggio dalla città alla campagna aperta con radi uliveti e frutteti in ricordo delle campagne coltivate al tempo dei romani. In questa fascia intermedia la linea ideale delle antiche mura distrutte sarebbe stata segnata con una siepe continua di mirtus selvatico, mentre alcuni ruderi isolati sarebbero stati segnalati con qualche albero ben visibile. La terza zona prevedeva lungo il Cardo e il Decumano un’alberatura irregolare, rada e distanziata unicamente di pini per marcare l’importanza di dette strade, mentre lungo le vie secondarie e presso qualche edificio l’architetto pensò di collocare cipressi e olmi. Su consiglio di Guido Calza fu studiato, nella quarta zona riguardante i giardini interni e il piazzale d’ingresso, un certo numero di giardini alla romana per i quali Busiri Vici segnalò, attraverso rilievi e vedute prospettiche, le piantagioni idonee collocandole nei punti più suggestivi e più adatti a commentare i ruderi messi alla luce. Per l’ingresso e il parcheggio auto l’architetto disegnò una pianta in cui, ponendolo ad un livello inferiore, divideva il parco auto con delle alte siepi. Così l’architetto Busiri Vici concluse la sua relazione :” Come d’accordo l’esecuzione verrà seguita sul posto dal sottoscritto, in collaborazione col Prof. Guido calza Direttore degli Scavi e con l’Ufficio Giardini dell’Esp. U.R. E’ particolarmente importante di seguire le piantagioni sul posto perchè l’armonia del dettaglio e dell’insieme può dipendere anche da piccoli spostamenti nella posizione delle piante e da piccole variazioni nelle varietà, colori e grandezze, variazioni e spostamenti che possono giudicarsi solamente al momento della piantagione.” Del progetto presentato fu realizzata solo una parte che ancora oggi fa capire quanto importante fu, nel programma generale, un attento studio del verde per commentare i ruderi scoperti ma soprattutto per dare vita ad uno dei più belli parchi archeologici esistenti. Il progetto fu approvato da una commissione giudicatrice composta tra l’altro da Piacentini, Calza, De Vico e Minnucci, il 28 febbraio 1941 30 pur con qualche osservazione fatta dall’arch. Piacentini fu approvato il 28 dello stesso mese, con qualche osservazione fatta dall’architetto Piacentini che propose invece dei frutteti, nella fascia sistemata a campagna, piccoli gruppi di alberi da frutto alternati agli ulivi; nel parcheggio consigliò di piantare alberi per fare ombra e anche per migliorare lo squallido aspetto; in fine Piacentini sconsigliò di collocare due pini simmetrici ai lati del Campidoglio. Nel frattempo il progetto approvato all’unanimità venne passato all’Ufficio Giardini per l’esame dettagliato, il preventivo e il programma dei lavori.
4-L’eredità lasciata con l’occasione dell’E 42.
Con lettera del 2 dicembre 1942, indirizzata al ministro Bottai, il Calza così concluse la relazione sulle campagne di scavi durate un quadriennio: “ Mi onoro sottoporre all’approvazione di V.E. un piano di pubblicazione dei monumenti ostiensi in una serie di fascicoli illustrati di varia ampiezza da editare periodicamente entro un certo numero di anni. (... ) L’importanza e l’interesse di Ostia nel quadro della civiltà romana nonché la vastità dell’impresa compiuta in un determinato periodo di tempo giustificano pienamente una serie di pubblicazioni ( di cui si dà qui un primo elenco ) le quali dovrebbero essere stampate dal Poligrafico dello Stato in fascicoli di cm. 30 x 22 circa con tavole inserite e riunite in fondo al volume”. Il precipitare degli eventi non permise, pur avendo avuto pieno assenso dalle autorità, alcuna delle dieci pubblicazioni elencate dall’archeologo, sì che il primo volume della serie degli Scavi di Ostia vide la luce solo nel 1953 a cura di Pietro Romanelli che raccolse l’eredità di Guido Calza scomparso nel 1946. Il testo Topografia Generale di Ostia di Guido Calza e Italo Gismondi ancora oggi rimane un testo fondamentale per lo studio delle antichità ostiensi ma anche “ per comprendere l’assunto realizzato dal Calza, cogliendo l’occasione del programma per l’E 42, di un nuovo interesse ai valori classici dell’architettura e dell’urbanistica moderna”. Infatti fu grazie a delle direttrici ben precise per l’attuazione della campagna archeologica che permisero, e permetto tutt’oggi, di dimostrare lo sviluppo urbanistico di Ostia imperiale caratterizzato, al di là del criterio tradizionale a strade ortogonali del nucleo repubblicano, dal perseguire con direzioni radiali il raggiungimento della linea costiera verso sud ovest. Quest’ultimo aspetto come tanti altri venuti alla luce ( la casa monofamiliare, il grande edificio multipiano con appartamenti, ecc. ) furono i temi fondamentali che Ostia rappresentò per gli studiosi, architetti, intellettuali del tempo ma anche per quelli degli anni successivi alla seconda guerra mondiale. Il grandioso ed oneroso progetto di scavo, attuato in soli quattro anni, mise alla luce buona parte della città nell’area occidentale, più del doppio di quanto non fosse stato fatto fino ad allora. Ancora più straordinaria fu l’opera di restauro e valorizzazione messa a fuoco dall’eccellente binomio dell’archeologo Calza e dello architetto Gismondi, che portò al rilevamento completo dal punto di vista planimetrico della città scavata ed allo studio ricostruttivo in grafici ed in plastici dei principali episodi edilizi ed urbanistici che hanno costituito e costituiscono tuttora argomenti da manuale di studio. Ostia di Calza e Gismondi è il risultato positivo e permanente di uno dei tanti temi che il programma dell’E 42 si era proposto. Da esso è scaturito un vivaio intenso di studi e di opere a carattere internazionale ed è sorto uno dei più suggestivi dei parchi archeologici monumentali, ha visto alla luce il più significativo museo di scultura romana e da esso continua ad essere potenziato il flusso turistico internazionale auspicato fin dall’epoca del primo accordo per gli scavi di Ostia, sanzionato nel 1938 dall’Ente Autonomo Esposizione Universale di Roma.
NOTE CAPITOLO III
1Ugo Ojetti, Ostia duemila anni fa e Ostia nel 1942, in “ Corriere della Sera ”, 2 gennaio 1040.
2 Nel 1928 si svolse alla Sala Borromini il I° Congresso dell’Istituto di studi Romani, durante il quale fu proposto da Virgilio Testa, per la prima volta, di espandere Roma verso il mare. La direzione prescelta era stata già negli anni precedenti riservata per la realizzazione di un grande quartiere industriale gestito dall’Ente per lo sviluppo marittimo e industriale di Roma ( SMIR). Il 28 ottobre 1928 Mussolini inaugurò l’autostrada Roma -Mare verso il Lido di Ostia.
3Cfr. nota n. 1
4Guido Calza, Ostia antica e l’Esposizione Universale di Roma, in “ L’Urbe “, Roma febbraio 1930, pp. 1-6
5A.C.S., EUR, Servizi Artistici, busta 934, Scavi e Antichità, fasc. 8618.
6Cipriano Efisio Oppo (1890-1962), pittore deputato e sindacalista fascista fu commissario aggiunto all’EUR fino all’autunno del 1943 ed ebbe nell’organizzazione dell’Esposizione un ruolo importante sia nell’impostazione generale che nelle prime realizzazioni.
7Il testo dice :” Egregio Professore, ricevo la gradita Sua lettera del 5 corrente e tengo a precisarle, sicuro di farle piacere, che il progetto relativo agli scavi ostiensi è stato succintamente prospettato nel programma di grande massima che il Commissario Generale, Senatore Cini, ha presentato al Duce. Essendo stato tale programma approvato nel suo insieme si dovrebbe dedurre che l’approvazione concerna anche le varie parti cui esso si compone. Sarà bene ad ogni modo attendere ulteriori comunicazioni dal Ministero dell’educazione Nazionale il quale, a suo tempo, dovrà sovrintendere alla esecuzione dei lavori che saranno definitivamente decisi. mentre la prego voler considerare queste notizie come aventi carattere strettamente personale e confidenziale mi è grato porgerle i miei cordiali saluti.”.
A.C.S., EUR, Servizi Artistici, busta 934, Scavi e Antichità, fasc. 8618.
8Le condizioni elencate da Bottai furono comunicate al l’Onorevole Cini con una lettera del 23 agosto 1937, nella quale così commenta lo stato degli scavi al termine dei lavori :” (...) un complesso monumentale e artistico che certamente richiamerà l’attenzione degli studiosi e soddisferà la curiosità dei visitatori dell’Esposizione che, così, in Ostia Antica troveranno un quadro pressochè completo di civiltà e di vita imperiale romana.”
A.C.S., EUR, Servizi Artistici, busta 934, Scavi e Antichità, fasc. 8618.
9A.C.S., EUR, Servizi Artistici, busta 934, Scavi e Antichità, fasc. 8618.
10 Guido Calza, La resurrezione di Ostia antica per l’Esposizione universale del Ventennale, Roma, Convegno Augusteo, 23-27 settembre 1938
11Il 29 maggio 1927 fu inaugurato il teatro di Ostia Antica dopo il restauro e la parziale ricostruzione ad opera dell’arch. Antonio De Vico e in seguito agli studi e alle ricostruzioni grafiche fatte da Calza e Gismondi. In quel periodo furono ricostruite solo le gradinate del primo e secondo ordine di età augustea. Il teatro fu infatti costruito in reticolato di tufo all’epoca di Augusto e successivamente ampliato dagli imperatori Settimio Severo e Caracalla con l’aggiunta sia di un terzo ordine di gradinate , sopra il quale era certamente un loggiato, che dell’ingresso centrale assai raro nei teatri antichi. Quest’ultimo, posto sul Decumano Maximum, era circondato da portici con botteghe di cui furono ricostruite alcune arcate nel periodo dei grandi scavi per l’E42. Infatti essendo ben visibili dalle strade che costeggiavano l’antica città, le arcate del teatro dovevano rappresentare l’elemento di riconoscimento dell’intero parco archeologico.
Per un maggiore approfondimento sul teatro e i suoi restauri si veda : G. Calza, Il teatro di Ostia, in “ Capitolium”, maggio 1927, pp. 74-85; ed inoltre i numerosi articoli scritti in quell’anno sui quotidiani italiani e stranieri.
12L’opera non fu mai portata a termine, ma ancora oggi rimangono nell’Archivio della Soprintendenza di Ostia Antica una notevole quantità di materiale documentario, di articoli e di pubblicazioni scientifiche.
13Al termine del programma fu stabilito l’ordine con cui sarebbero stato eseguiti i lavori per riuscire nei quattro anni che separavano dall’inaugurazione dell’Esposizione a compiere l’intera opera. L’ordine era :” Sterro e scavo della zona A1,A2 - Costruzione e sistemazione del nuovo piazzale di accesso dell’Autostrada - Restauro del piazzale del Teatro - Inizio dell’ampliamento del Museo - Piantagioni e opere di giardinaggio.
A.C.S., EUR, Servizi Artistici, busta 934, Scavi e Antichità, fasc. 8618.
14Una copia della Pianta Generale in scala 1: 2000 è conservata nell’Archivio centrale di Stato, Servizi generali, busta 101, Guido Calza, fasc. 495/5. Il disegno eseguito da Gismondi è a colori e presenta le varie zone con cui fu suddiviso il progetto evidenziate da campiture geometriche.
15 M. Alberici, Ostia Antica ritornerà interamente alla luce, in “ Corriere della Sera”, 5 febbraio 1940.
16A.C.S., EUR, Servizi Artistici, busta 934, Scavi e Antichità, fasc. 8618.
17Ibidem.
18Ibidem. La lettera autografa di Calza è datata 25 marzo 1938.
19 Il brano è tratto da un articolo di Guido Calza, Ostia antica e l’Esposizione Universale di Roma , in “ L’Urbe”, febbraio 1938. La rivista Roma su cui è stato pubblicato l’articolo di K. Lehmann-Hartleben è del 1936.
20A.C.S., EUR, Servizi Artistici, busta 934, Scavi e Antichità, fasc. 8618.
Ad ogni relazione sullo stato di avanzamento dei lavori era allegata una cartina , oggi perduta, con l’esatta posizione dei ritrovamenti citati nella relazione.
21Si veda a tale proposito la planimetria generale riprodotta nella figura n. 98.
22Michele Busiri Vici nato a Roma nel 1894 era membro di una nota famiglia di architetti romani e molte delle sue opere le realizzò con Andrea e Clemente Busiri Vici. Laureatosi in ingegneria nel 1921 entrò a far parte dell’Ordine degli Architetti nel 1946. Tra le numerose opere realizzate ricordiamo la Garbatella fuori Porta S. Sebastiano (1936), la chiesa di S. Ippolito Martire a viale delle Provincie (1936), la Chiesa di S. Saturnino (1938).
23A.C.S., EUR, SAPG, busta 841, Costruzioni, fasc. 7142.
La lettera d’incarico è firmata dall’ing. Cipriano Efisio Oppo.
24A.C.S., EUR, SAPG, busta 841, Costruzioni, fasc. 7142.
In questa lettera indirizzata all’arch. Gaetano Minnuci, Michele Busiri Vici elencò i punti più importanti del nuovo programma di lavoro per completare il progetto di massima iniziato. Egli riteneva molto importante l’esecuzione dell’impianto d’irrigazione “ (..) senza del quale non solo non sarebbe possibile mantenere verdi i prati ed i giardini ma anche, in una zona battuta dai venti marini come quella degli Scavi d’Ostia, la massima parte delle piantagioni arboree andrebbe perduta durante la prima stagione estiva seguente la piantagione.”
25Il progetto conservato nell’Archivio di Ostia Antica è molto probabilmente l’originale. Infatti all’Archivio centrale di Stato pure essendo raccolta tutta la corrispondenza tenuta con l’Ente e la relazione del progetto, non è conservata alcuna copia del progetto.
26La relazione è suddivisa in paragrafi di cui il primo è costituito da l’elenco degli elaborati di cui si compone il progetto : due planimetrie generali (scala 1/2000- 1/1000 ), alcuni studi prospettici di punti principali, la pianta e alcune sezioni dell’ingresso principale con il parco auto (scala 1/200) ed infine piante , prospetti e sezioni ( scala 1/100- 1/50) dei luoghi più suggestivi del parco archeologico con indicate le nuove sistemazioni a verde.
27A.C.S., EUR, SAPG, busta 841, Costruzioni, fasc. 7142.
28Per meglio far comprendere la consistenza del lavoro eseguito dall’arch. Busiri Vici elenchiamo di seguito i paragrafi con cui divise la sua relazione: Elenco degli elaborati di cui si compone il progetto ; Concetti generali; Caratteri delle piantagioni nelle differenti zone in cui può considerarsi suddiviso l’insieme; Impianto d’irrigazione e impianto d’acqua potabile; Impianto d’illuminazione ; Qualità e quantità delle piante accorrenti per le sistemazioni arboree e per i giardini; Conclusione.
29Cfr. nota n. 27.
30 Ibidem.
31Ibidem.
32 Ibidem.Gli argomenti delle pubblicazioni sarebbero dovuti essere i seguenti: Storia degli scavi di Ostia; Sviluppo storico ed urbanistico di Ostia dal IV sec. a.C. al IV sec. d.C.; I culti orientali in Ostia; L’abitazione romana in Ostia; Edifici commerciali e annonari in Ostia; La Rocca di Giulio II; I templi ostiensi; Le iscrizioni greche in Ostia; edifici pubblici e monumentali di Ostia; Le terme ostiensi. Gli autori oltre a Calza, dovevano essere Becatti e Guarducci.
33V. S. M. Scrivani, Gli scavi di Ostia e l’E42, in “ AA.VV. , E42 utopia e scenario del regime “, Roma 1987, pp. 179-188.
Capitolo 4: L’INSULA OSTIENSE E IL DIBATTiTO CULTURALE ED ARCHITETTONICO CONTEMPORANEO.
1-L’insula ostiense
Nella città romana esisteva accanto alla casa unifamiliare la domus, 1 un secondo tipo di edificio residenziale l’insula, la casa ad alloggi multipli, d’affitto, sviluppata su un piano verticale. La data di nascita di questo diverso modello di abitazione è, generalmente, fatta coincidere con il 456 a. C., anno in cui il tribuno Icilio s’incaricò di procurare nuovi alloggi per la plebe che affollava in numero sempre crescente la capitale. Infatti a Roma la tumultuosa crescita demografica dei secoli finali della repubblica aveva determinato l’esigenza di una edilizia intensiva nel settore delle abitazioni. La scarsità di terreno nella grande città determinò non solo case a molti piani sovrapposti ma anche accostate le une contro le altre, utilizzate persino nelle parti sotterranee e con locali di dimensioni estremamente ridotte. Fu Cicerone il primo autore ad usare il termine insula in senso architettonico, intendendo con esso un blocco abitativo, generalmente a più piani, suddiviso in appartamenti ( cenacula ) da affittare separatamente. Sul piano sociale ed urbanistico questa nuova tipologia abitativa comportò gravi e prevedibili conseguenze negative, quali il sovraffollamento, la carenza di luce, di aria e di igiene, pericoli di crolli e di incendi, che furono affrontate già all’epoca di Augusto con la limitazione in altezza degli edifici a 70 piedi prima e 60 piedi dopo il grande incendio di Roma del 64 d. C.. Nei centri minori, quali ad esempio Pompei ed Ostia, il problema del sovrappopolamento e conseguentemente quello delle abitazioni si posero in modo meno drammatico che nella grande città. Esse furono per molto tempo caratterizzate dalla domus di tradizione repubblicana, normalmente limitata al piano terreno. Ad Ostia nella ricostruzione del II secolo le vecchie domus della repubblica e della prima età imperiale furono in gran parte travolte dalla impetuosa ricostruzione dovuta al grande incremento delle attività portuali, marittime e commerciali. 2 I primi segnali di un processo di trasformazione che con il tempo avrebbe certamente portato ad una completa dominanza dell’insula nel campo dell’edilizia abitativa, furono chiaramente leggibili in alcuni esempi di domus sia a Pompei che a Ostia, in cui si era tentato lo sviluppo in altezza con l’aggiunta di un piano, a quello terreno, da poter affittare. Quando Ostia venne largamente riedificata la tipologia dell’insula ben si adattava, nella sua pratica funzionalità, al carattere attivo della città dedita soprattutto ai commerci e alla produzione, e la cui popolazione consisteva principalmente in quei ceti medi e popolari cui prevalentemente si rivolgeva la nuova edilizia. L’aspetto di Ostia, che gli scavi avevano messo in luce, era costituito da una regolare scacchiera con strade parallele e normali tra loro; anche l’abitato era quindi disposto in isolati di varia superficie i quali contenevano più corpi di case. Ciascuna di queste era indipendente avendo ingressi e scale proprie conducenti dalla strada ai piani superiori. Per la ricostruzione delle complesse realtà architettoniche Calza e Gismondi si basarono, nella maggioranza dei casi, solo sui resti dei piani terreni, mentre per definire il numero e la disposizione dei piani alti possedevano solo indizi, quali l’ubicazione delle scale e lo spessore dei muri portanti. La casa ostiense era caratterizzata dallo sviluppo in senso verticale fino a raggiungere la sovrapposizione di tre o quattro piani, simili tra loro nella disposizione degli ambienti, con andamento continuo di terrazze o di tetti. Erano costituite da vere e proprie facciate a finestre poste su strada oppure parte su strada e parte sopra aree scoperte o cortili interni. Altra caratteristica fondamentale, messa in rilievo dall’analisi fatta dall’archeologo, era che più appartamenti formavano degli isolati aventi una o più scale sboccanti sulla strada. Ogni piano poteva essere costituito da un solo o da più appartamenti con comunicazioni separate. Spesso gli edifici venivano interrotti da angiporti, passaggi coperti ricavati nella profondità del caseggiato, che garantivano una facile comunicazione dei due fronti e delle strade su cui l’edificio si affacciava, quasi come se fossero dei vicoli. Tali passaggi erano spesso in prossimità delle scale conducenti ai piani superiori e sotto ad essi furono ritrovati gli ingressi agli appartamenti al livello della strada. Al piano terra l’insula era spesso fornita di portici sotto i quali si aprivano le botteghe e gli ingressi alle scale, potevano anche avere un fronte di tabernae aperte direttamente sulla via oppure essere occupato da appartamenti con finestre poste in alto. Le facciate avevano frequentemente dei terrazzi, dei ballatoi di varia forma e struttura, sia sopra alle tabernae che ai piani superiori, inoltre se la casa aveva portici al piano terra i piani superiori potevano avere dei loggiati. Gli ambienti, equivalenti tra loro, degli appartamenti erano illuminati da una o più finestre e potevano essere distribuiti in vari modi. Altro aspetto interessante era l’introduzione di cortili o di spazi aperti nell’interno dei caseggiati, intesi come elementi di sussidio alla facciata esterna prevalentemente per dare più luce ed aria agli appartamenti Calza distingueva due sotto-tipi del tipo di insula fino ad ora descritto: la semplice casa a più piani serviti da un’unica scala esterna, con un solo appartamento su ogni piano ed eventualmente una serie di botteghe al piano terra, dal più complesso caseggiato che era composto da diverse insulae contigue, isolato da strade e che poteva comprendere al suo interno officine, scholae, luoghi di culto, ecc.. Nel suo scritto, La preminenza dell’insula nell’edilizia romana, 3 l’archeologo nel 1915 già poté con molta chiarezza distinguere le principali caratteristiche che separavano la domus pompeiana, basata sullo sviluppo orizzontale l’illuminazione interna, dalla casa ostiense costituita dallo sviluppo verticale e l’illuminazione esterna. “ la domus ad atrio si rivela assai presto una abitazione inadatta alle esigenze di ogni classe della popolazione. La integrità delle sue caratteristiche si mantiene soltanto col restringerne l’uso a determinate persone e con l’innesto della casa ellenistica. Essa si trasforma invece interamente, se destinata al medio ceto, assumendo un tipo assolutamente nuovo, caratterizzato esteriormente dalla presenza di facciate con finestra”.4 Nel testo sopra citato Calza elencò gli elementi architettonici, tecnologici e strutturali che formavano l’insula. Anche noi in questo scritto seguiremo tale traccia per meglio mettere in evidenza le parti compositive che furono assimilate nell’architettura dei secoli successivi fino a formare i più recenti sviluppi di quella contemporanea.
Altezza delle case: l’abbondante cumulo di macerie cadute sopra la linea di crollo cioè all’inizio del secondo piano, lo spessore dei muri, la larghezza delle strade e le fonti letterarie dimostrarono ai due studiosi che l’altezza delle case di Ostia e di Roma raggiunsero i 16 e 18 metri di altezza e cioè la presenza di almeno 4 piani oltre al piano terra.
Tetti delle case: il calza suppose per le abitazioni di tipo ostiense l’uso in generale di una copertura a tetto, anche se tra le macerie del crollo scavate i resti delle tegole erano scarsi e sporadici. Infatti i primi a scomparire nel lento disgregarsi della città furono i materiali delle coperture per essere riutilizzati in altre costruzioni. Inoltre l’archeologo segnalò i resti di solaria, terrazze sulle case e sui portici, che erano limitati solo a parti del caseggiato.
Struttura ed estetica della facciata: l’insulae ostiensi erano tutte in cortina laterizia, sostituita talvolta negli interni e nelle facciate secondarie da opera reticolata con ricorsi in mattoni. La grandissima maggioranza degli edifici non doveva essere intonacata all’esterno mentre lo era all’interno spesso con bellissimi affreschi. Gli ingressi delle case erano contraddistinti da lesene e colonne in cotto sorreggenti un timpano triangolare, mentre le finestre erano talvolta contornate da una semplice decorazione in listelli di mattone. Pur non essendo intonacate le facciate si presentavano policrome grazie sia all’uso di mattoni di differente colore, rosso scuro e giallo, sia alternando al mattone elementi in travertino oppure incrostazioni in pomice, sia attraverso la colorazione con rosso minio degli archi e degli aggetti della muratura ( listelli, lesene, frontespizi, ecc. ). “L’usanza così diffusa di questa cortina laterizia che vien ravvivata da qualche tono di colore e dalla decorazione in cotto è cosa assolutamente nuova nell’architettura romana: Ostia ci ricorda piuttosto qualche città della rinascenza come Ferrara, con in più un sobrio impiego di policromia”.5 Come risulta dagli scritti dell’archeologo tre erano i tipi principali a cui si riducevano le facciate esterne delle case ostiensi: tipo a finestre, quando cioè la casa abbia anche al piano terra appartamenti; il tipo a portici, cioè case con porticati e botteghe che si aprono sotto di esso e appartamenti superiori; infine il tipo a botteghe con appartamenti superiori.
Le finestre: il numero e la distribuzione delle finestre era naturalmente legato a quello degli ambienti a cui davano luce. Di forma rettangolare erano disposte sopra ciascun piano con una simmetria non rigidissima ma tale però da formare una linea ininterrotta di bucature presso a poco uguali tra loro. In qualche casa con ambienti a doppia altezza le finestre erano sei , tre sopra e tre sotto, unite in una trifora. Piccole finestre corrispondevano al mezzanino delle botteghe oppure al corpo delle scale. I vani delle finestre, come risultava da evidenti tracce, erano rivestiti da cassettoni in legno ai quali erano applicate le chiusure con protezione di lastre di selenite. Il vano delle finestre era sorretto da un arco ribassato in laterizi e lo spazio compreso tra il sesto dell’arco e la sua corda era occupato dalla muratura per formare la linea orizzontale. “In sostanza per ciò che riguarda le finestre il caseggiato ostiense ci appare nell’aspetto esteriore in tutto simile alle più comuni e semplici facciate degli odierni casamenti”.6
I balconi: l’esistenza dei balconi, pegula, maeniana, era letterariamente nota per le case romane ma archeologicamente conosciuta soltanto per la presenza di qualche balconcino a Pompei. Calza elencò tre tipi di balconi scoperti ad Ostia. Il più semplice, quello pompeiano, era in legno formato da un piano di travi orizzontali, distanti circa un metro uno dall’altro, incastrati nella muratura e sostenenti un semplice impalcato di legno, di cui rimangono ad Ostia soltanto gli incastri nel muro. Una seconda forma era data da una serie continua di volte a botte sostenute da grandi mensole di travertino incastrate nel muro in corrispondenza di quelli trasversali. Il coronamento era costituito da una semplice cornice in mattoni sporgente circa 20 centimetri. Un terzo tipo aveva la forma di un grande guscio con la linea d’imposta orizzontale e le generatrici dell’intradosso parallele a questa linea. Quando la linea d’imposta tagliava a metà l’apertura di un vano, allora il guscio veniva lunettato per far sviluppare liberamente il motivo delle finestre. in questo terrazzo il coronamento era nuovamente costituito da una cornice di mattoni e il piancito era in cocciopesto. Anche le case con i portici avevano al disopra di essi dei terrazzi formati da loggiati pilastrati o con colonne, come lo stesso Gismondi ipotizzò in una delle sue ricostruzioni grafiche.
I portici e le botteghe: i portici, voluti da Nerone nella ricostruzione di Roma per proteggere gli isolati dagli incendi, ad Ostia erano stati ritrovati non solo lungo le strade più larghe, come ad esempio il Decumano, ma anche in vie minori, in quanto la loro presenza accresceva decoro e signorilità alla strada. Solitamente le botteghe si trovavano sotto i portici ma anche nei piani terra degli edifici con le facciate libere. Erano coperte a volta oppure con solai in legno che formavano anche il pavimento del mezzanino superiore al quale si giungeva con una scala con i primi gradini in muratura e gli altri in legno. Le botteghe verso l’esterno avevano delle grandi aperture che venivano chiuse con pannelli in legno scorrevoli entro guide ricavate nella soglia in travertino in basso e nell’architrave di legno in alto.
Gli angiporti e le scale: l’angiporto, come è stato già descritto, era una specie di androne, ricavato sempre vicino al vano delle scale, che attraversava il caseggiato in larghezza mettendo in comunicazione due strade oppure una strada con lo spazio privato interno. Le scale iniziavano direttamente sulla strada segnalate all’esterno da lesene e timpano come gli ingressi, e la loro distribuzione era studiata per rendere indipendenti le comunicazioni tra i vari appartamenti. Infatti quelli del piano terra, che comprendevano anche il primo piano, avevano sempre la scala interna. Le scale in muratura erano elementi sostanziali di ordine e di economia distributiva, alcune volte dividevano il caseggiato in più corpi, come del resto ancora oggi si usa fare. Ai piani superiori si saliva generalmente con una sola rampa, che poggiava sulle due pareti laterali, con gradini in travertino, o in mattoni oppure con lo spigolo in legno.
Il cortile: realizzato prevalentemente in quelle case che non potevano fronteggiare su due strade, non era paragonabile ne all’atrio ne al peristilio della casa greco-romana, perché veniva utilizzato da tutti gli appartamenti del caseggiato che vi aprivano porte e finestre e che sviluppavano per mezzo del cortile una serie di ambienti interni. Il suolo del cortile veniva utilizzato solo dall’appartamento del piano terra che apparteneva o al proprietario del edificio oppure ad uno degli inquilini. “Ma più comunemente il cortile serve a dar luce e aria al piano terra che le riceve per mezzo di aperture ad arco, raramente mediante finestre: in modo che questi cortili possono riaccostarsi, salvo le proporzioni minori, ai cortili a portico dei palazzi della rinascenza”. 7 Spesso il cortile aveva fontane e vasche per la distribuzione dell’acqua e, come era per la domus, venivano disposti sulle sue mura uno o più lararia. La distribuzione degli appartamenti: Guido calza distinse quattro tipologie di appartamenti. Il primo era formato da una serie di stanze allineate lungo la facciata, da cui prendevano luce, comunicanti tra loro da un passaggio largo circa 2 metri che separava i muri divisori delle stanze centrali dalla parete di facciata, in modo tale che le camere erano chiuse verso il passaggio soltanto da tendaggi. Gli ambienti alle due estremità erano sicuramente i migliori dell’appartamento del quale occupavano tutta la profondità. Il secondo tipo si affacciava su due lati paralleli ed era distribuito in tre corpi: uno centrale di comunicazione e due corpi laterali con alcuni ambienti non ammezzati. Un terzo tipo, pur usufruendo di una sola facciata su strada veniva anche illuminato da alcune finestre che si aprivano sul cortile. Gli ambienti erano uniti tra loro con una passerella che attraversava lo spazio centrale aperto. L’ultimo tipo di abitazione descritto dall’archeologo era quello formato da due facciate su strada e una verso il cortile. al termine di alcuni dei suoi articoli sull’insula ostiense Calza cercò di far comprendere al lettore l’importanza della scoperta fatta e l’eredità che di essa si era tramandata nei secoli. Nell’articolo su “Capitolium” del 1929, così concluse: “L’importanza delle case ostiensi non si limita a farci constatare nuove esigenze di vita e nuovi tipi di abitazione. Si osservano infatti in queste nuove forme e nuovi elementi architettonici e decorativi che rinnovano e improntano ad uno spirito di modernità tutta l’architettura antica. La quale si riallaccia alle architetture posteriori e continua fino ai giorni nostri, con una vitalità che certo noi non sospettavamo. Molte forme che si ritenevano prodotte da nuove esigenze di vita e da influssi di popoli e civiltà straniere o posteriori alla latina, vanno invece rivendicate all’architettura romana”.8 In questa descrizione delle caratteristiche dell’insula abbiamo volutamente mantenuto il livello di informazione il più possibile vicino a quello del periodo in cui lavorarono Guido Calza e Italo Gismondi, anche se tra i testi consultati sono compresi quelli con i più recenti risultati.9 L’aver affrontato in tale modo lo studio dell’insula ci ha aiutato a comprendere meglio lo spirito e il livello di informazione del tempo e i conseguenti influssi che ne scaturirono.
2-Le prime pubblicazioni sulle nuove scoperte e l’influenza delle teorie di Calza e Gismondi nell’ambiente culturale romano.
Nominato ispettore per gli scavi di Ostia nel 1912, l’archeologo Guido Calza iniziò la sua lunga e costante attività, e fu proprio nei primi anni della sua carriera ad Ostia che intuì, grazie agli scavi eseguiti da Dante Vaglieri, ed insieme all’inseparabile compagno Italo Gismondi, una chiara differenza tra la ormai nota domus pompeiana e le case ostiensi. L’archeologo divulgò, già tra il 1915 e il 1916, 10 principalmente nel mondo scientifico, i primi risultati della sua ricerca sulla scoperta dell’ insula ostiense in due riviste: “Monumenti Antichi”,11 a cura della Reale Accademia dei Lincei, e “nuova Antologia”12 rivista di lettere, scienze ed arte. Nello scritto la Preminenza dell’insula nell’edilizia romana Calza mise a confronto l’insula con la domus per meglio far comprendere l’origine e la differenza della prima nei confronti della seconda più conosciuta. Dopo aver descritto i vari elementi architettonici che compongono la casa ostiense, elencò tutte le insulae fino ad allora scoperte ad Ostia. Il testo a carattere scientifico, introduce l’argomento, fondamentale, del metodo divulgativo che Calza usò in seguito e cioè l’attribuzione dell’origine dell’abitazione moderna all’insula. Tale metodo fu fondamentale sia per l’apporto scientifico sia per una più immediata comprensione della nuova scoperta da parte del vasto pubblico. Anche nell’articolo Le case d’affitto in Roma antica fu importante il processo di divulgazione che Calza adottò. Il testo dimostra la presenza a Roma, grazie alle fonti letterarie e alle testimonianze archeologiche, di case di abitazione a più piani. Così Calza rese più interessante la scoperta fatta, rispetto alla domus pompeiana, perché riguardava da vicino quell’idea di grande città imperiale che in quegli anni si cercava di diffondere e che era già centro di notevoli attenzioni da parte del mondo culturale internazionale, come dimostrano le tante conferenze fatte da Calza in tutto il mondo. La notizia dei nuovi ritrovamenti non entrò subito a far parte del dibattito culturale del tempo ma rimase entro una cerchia ristretta di studiosi e archeologi, anche se lo stesso Calza affermava: “Né bisogna trascurare, compiuta la illustrazione scientifica, anche la divulgazione, destinata ad un più largo pubblico che non quello delle riviste strettamente scientifiche: giacché lo scavo non ha da essere soltanto un inventario scientifico ma anche un libro di piacevole lettura per tutti. ( . . . ); in città conservate invece come Pompei, Timgad, Ostia, occorre una esplorazione continua, metodica per rintracciarne la genesi e l’evoluzione studiandone e reintegrandone la storia e la vita sia per quel che riguarda il loro organismo architettonico sia in quanto esse sono un organismo sociale. E lo scavo di Ostia è stato diretto appunto oltre che a uno scopo strettamente scientifico anche a un fine essenzialmente divulgativo”.13 Solo dieci anni dopo nel 1923 con due articoli di Calza, Le origini latine dell’abitazione moderna, pubblicato su “Architettura ed Arti Decorative”,14 e La casa romana, scritto su “Capitolium”15 nel 1929, le eccezionali scoperte e le attente ricostruzioni di Gismondi ebbero sul mondo culturale una forte influenza, soprattutto su quello architettonico in quanto lo stesso archeologo nei suoi due articoli fece notare la grande somiglianza che l’insula aveva con le abitazioni contemporanee. Il primo articolo fu pubblicato in due parti e corredato dalle numerose ricostruzioni grafiche disegnate dagli architetti Gismondi e Lawrence, alunno della British School of rome, per studiare, comprendere ed illustrare meglio la nuova scoperta. L’archeologo nel testo si soffermò molto sull’aspetto architettonico dell’insula in quanto rivolta ad un settore specifico che rimase fortemente colpito. Infatti in quegli anni si tendeva a presentare ogni nuova scoperta riguardante la romanità in modo tale da impressionare molto il pubblico per ottenere così una immediata influenza nella vita sociale, politica e culturale. La stessa rivista “Architettura e Arti Decorative”, che tra il 1927 ed il 1931 passò dalla direzione di Giovannoni a quella di Foschini, ed in fine a quella di Piacentini, dopo essere divenuta organo ufficiale del Sindacato Nazionale Architetti, fu molto impegnata a costruire una tradizione tipologica e tettonica dell’abitare nella grande città. Per questo le ricostruzioni archeologiche di Gismondi furono proposte come alternativa specifica di Roma ai modelli derivati dalla manualistica anglosassone e tedesca, al resto dell’Italia, cercando così di definire uno stile nazionale omogeneo. Evidente prova dell’interesse che ne scaturì furono i numerosi articoli sui quotidiani italiani e stranieri, le pubblicazioni di noti studiosi, l’allestimento di alcune mostre e, come vedremo in seguito, la progettazione di edifici con chiari riferimenti alla casa ostiense. Nel secondo articolo, pubblicato su “Capitolium”, rivista a carattere storico-artistico, l’autore riuscì a divulgare e a far conoscere sempre di più le scoperte ostiensi all’ambiente culturale e architettonico romano il quale dava, in quel tempo, molta più attenzione alle scoperte archeologiche fatte a Roma, a Pompei e ad Ercolano, che erano già d’importanza internazionale. Infatti Calza pur con numerosissime pubblicazioni, articoli e conferenze, non riuscì ad ottenere lo stesso livello d’interesse sia sul fronte nazionale che internazionale attribuito alle altre scoperte. Ciò determinò non solo minore prestigio e notorietà per l’opera dei due studiosi, ma soprattutto gravi problemi finanziari. solo più tardi con l’E 42 la situazione si capovolse in quanto fu messa a disposizione un’ ingente quantità di fondi per proseguire gli scavi, grazie ad un’opera che avrebbe messo in luce una intera città di età imperiale simbolo della rinata romanità. Quello che ci sembra importante mettere in evidenza è che già nel primo decennio del novecento il mondo culturale ed architettonico romano conosceva la nuova scoperta, sia in seguito alle pubblicazioni ma più probabilmente per una diretta conoscenza degli scavi, che determinò un lento processo di assimilazione nella società e nella cultura del tempo di tutti gli elementi e le teorie che la componevano e che sfoceranno successivamente anche in opere architettoniche ricche di citazioni. Ma analizziamo ciò che Guido Calza scrisse nell’articolo Le case d’affitto in Roma Antica del 1916 per capire meglio l’impostazione che diede ai suoi studi: “ E da questo fatto è derivato un errore, comune anche agli studiosi di antichità, basato sopra una falsa interpretazione di testi letterari e di monumenti archeologici, errore, per il quale si crede oggi da tutti, che le case di affitto antiche fossero soltanto meschine, oscure, incomode, anguste, pericolanti casucce destinate alla povera gente e, quindi, di importanza assai relativa per la conoscenza dell’edilizia romana. Lo studio che ho potuto fare sulle case di Ostia - città genuinamente romana e di indiscutibile autorità archeologica - mi permettono di rilevare oggi questo errore. Occorre però, anzitutto, rifarsi a pompei. E’ noto, come questa graziosa ed elegante cittadina vesuviana, ( . . . ), sia stata e continui ad essere la fonte principale per la conoscenza della vita antica. ( . . . ) Anche per la casa antica, quindi, le nostre cognizioni basavano esclusivamente su Pompei. Nella quale, ognuno, certo, sarà stato colpito dalla ripetizione costante di un unico modello di casa, costituito da una serie di ambienti, raggruppati intorno ad uno spazio centrale - atrio o peristilio - . Di conseguenza, la relativa scarsità di finestre, cioè la mancanza di una vera e propria facciata su strada come nelle nostre abitazioni moderne, e la bassezza della costruzione, che è una caratteristica del tipo architettonico e non già proveniente da crollo di piani superiori. ( . . . ) Ma di fronte alla casa pompeiana, non solo non si capisce come gli antichi possano parlare di abitare al quarto o quinto piano di una casa: Giovenale ci descrive infatti una casa, nella quale, mentre al primo piano abita il ricco Ucalegonte, all’ultimo abita il povero cliente ( . . . ); indice, questo, che i diversi piani segnavano già delle forti graduazioni di affitto. Ma non si capisce neppure come una casa pompeiana potesse presentarsi a tutte le esigenze degli affittuari, in una città popolosa e varia di ceto e di agiatezza, come Roma. E meraviglia anche che noi, pur non avendo troppo mutato, da allora, lo stile di vita, e avendo anzi ereditata e fatta nostra gran parte della architettura antica, abbiamo invece creato un nuovo tipo di abitazione. Che, certo, di fronte alla casa pompeiana, si avverte davvero un grande distacco tra l’antico e il moderno modo di abitare. Tali osservazioni furono fatte: ma la contraddizione che si avvertì tra i testimoni pompeiani e le testimonianze letterarie, rimase senza spiegazione. ( . . . ) La casa pompeiana fu, specie nell’età imperiale, un tipo di eccezione, esclusivamente privato e signorile, e quindi sporadico in una grande città antica. Tale asserzione, che si era, del resto, tentati di fare, viene documentata dall’abitato di Ostia antica, la quale rettifica pompei, contrapponendo alla domus, un tipo di casa totalmente differente. Tale tipo non solo spiega, ma documenta ciò che si riferisce alla casa d’affitto e toglie l’enorme differenza tra l’antico e il moderno modo di abitare, perché si rivela, inaspettatamente ma chiaramente, il prototipo della nostra odierna comune casa di abitazione”.16 Con queste parole si comprende come l’archeologo spiegò le sue perplessità prima e le sue convinzioni dopo su un argomento fino ad allora poco chiaro e che fu, insieme a Gismondi, al centro dei loro studi. Questo metodo di affrontare il nuovo tema fu adottato anche per riuscire a porre allo stesso livello d’importanza e d’interesse la casa ostiense appena messa in luce, rispetto alla casa pompeiana già nota e attentamente studiata. Ancora oggi, a nostro parere, la scoperta dell’insula rimane poco considerata soprattutto nel mondo architettonico che ci rivela evidenti riferimenti in molti stili passati e presenti derivati dalla casa di abitazione ostiense, che si pensava fossero originari di altri periodi storici. Un esempio tra tanti sono le balconate ininterrotte, presenti sulle facciate delle case ostiensi, sorrette da mensole in travertino o da pieducci in muratura che si credevano proprie dell’architettura bizantina e che invece si rivelano di origine romana in case del principio del II secolo d. C. “Cadono quindi tutte le fittizie argomentazioni sulla differenza di abitare tra gli antichi e noi e non c’è più bisogno di spiegare la casa moderna con influssi orientali. E occorre riconoscere che il tipo ostiense è contraddistinto da invenzioni di motivi e soluzioni di problemi tettonici ed architettonici, che sono rimasti i capisaldi dell’edilizia privata moderna”.17 Naturalmente anche il mondo archeologico rimase sorpreso dalla nuova teoria proposta da Calza che rivelava un nuovo volto delle antiche città. Roma fra tutte si pensava costruita prevalentemente da domus anche se molti testi letterari descrivevano nella grande città edifici a più piani con abitazioni in affitto, ma non essendoci stata fino ad allora prova visibile che lo dimostrasse, nessuno aveva osato pensare ad edifici differenti da quelli ritrovati a Pompei e in altre città scavate. Fino ad allora si pensava che alcuni dei rari esempi di case ritrovate a Roma, quali la casa dei SS. Giovanni e Paolo al Celio e la casa incorporata nelle mura Aureliane fuori porta S. Lorenzo, fossero assimilabili alla tipologia della domus pompeiana , mentre in realtà appartenevano al tipo dell’insula ostiense. Inoltre Calza cercò fin dall’inizio di impostare la sua ricerca dando importanza sia alla novità della scoperta ma soprattutto evidenziando il suo carattere prettamente italico sull’onda delle teorie allora molto sviluppate sull’identità nazionale, che si basava con il ritorno al mondo romano. Così scrisse in uno dei suoi articoli: “Ostia rivendica origini latine non soltanto alla nostra comune casa moderna, il cui tipo si era affannosamente cercato nell’oriente bizantino, ma a tutta la concezione edilizia a cui si informano le città nostre sia per ciò che si connette ai principi di viabilità sia per quegli elementi di estetica cittadina che sembrano un prodotto dei nostri giorni. Cosicché lo studio e anche la semplice visita alle imponenti vestigia di Ostia antica non è soltanto un efficace richiamo al passato; è anche una documentazione delle origini latine dei motivi su cui s’impernia la nostra tumultuosa vita moderna nei grandi agglomerati urbani. Noi sentiamo viva ed attraente la città antica non solo per quello che ci espone del passato ma per ciò che ci suggerisce del presente”. 18 Nel brano è chiara l’adesione dei due studiosi al dibattito allora molto acceso sulla romanità che rilanciava la gloriosa origine del popolo italiano per generare uno stile nazionale che potesse rappresentare il nascente potere fascista. Per confermare quanto scritto sopra ci sembra opportuno riportare alcune delle più significative affermazioni fatte da Calza in cui si legge la volontà, spesso forzata, di riportare l’architettura del tempo ad un’origine romana. Ad esempio una delle citazioni è quella che si riferiva alla casa popolare romana degli anni venti e trenta, perché più vicina alle caratteristiche dell’insula per la presenza del cortile centrale come fonte di luce ed aria, per l’organizzazione planimetrica degli isolati e anche per il tipo di popolazione che le abitava: “ Si è scoperto, ad esempio, un grande isolato composto di due caseggiati destinati ad abitazioni disposte sopra almeno quattro piani di altezza suddivisi in appartamenti, ( . . . ) il quale ricorda proprio l’impianto planimetrico che hanno i palazzi di abitazione dei nostri istituti di assistenza sociale, come l’Istituto delle case popolari o lo I. N. C. i. s.”.19 Addirittura l’influenza delle case ostiensi fu attribuita da Calza ai grattacieli americani: “Ma dai romani, fra tutti i popoli antichi, l’edilizia privata della maggior parte del mondo medioevale e moderno trasse i principi fondamentali, anzi gli stessi schemi tettonici dell’abitazione urbana, sia che essa assuma il tipo cosiddetto orientale della casa a patio, sia che, attraverso successivi sviluppi richiesti da nuove esigenze sociali e consentiti dall’impiego di nuovi materiali costruttivi, essa giunga fino al tipo del grattacielo americano”.20 Questo metodo di divulgazione contribuì indubbiamente ad aumentare, nel clima culturale romano, l’attaccamento alla tradizione passata. Un chiaro esempio di questo stato delle cose, fu il concorso per il “quartiere dell’Artigianato” 21 a Roma, bandito nel 1926, in cui i progetti presentati dimostrarono molta attenzione al contesto tradizionale romano nel quale si andavano inserendo. Primo fra tutti fu il progetto vincitore redatto dal gruppo di Pietro Aschieri, 22 con Mario De Renzi, Luigi Ciarrocchi, Mario Marchi, Costantino Vetriani, Giuseppe Wittinch, nel quale tentarono di interpretare in chiave moderna gli elementi del passato presentando una planimetria che era evidentemente organizzata secondo il concetto dell’isolato ostiense. 23 Il quartiere, da costruirsi a Porta S. Paolo come fase di decollo per l’intervento di risanamento del quartiere Rinascimento ad opera dell’Istituto case popolari del Governatorato, era stato pensato in previsione del decentramento di molte attività artigianali e produttive e fu proprio questo uno dei motivi che, secondo noi, suggerì al gruppo Aschieri 24 di rifarsi all’immagine di una città produttiva antica quale era Ostia. L’articolazione del progetto in grandi isolati chiusi intorno a cortili porticati e suddivisi per attività artigianali, anche se attraverso la mediazione moderna del classicismo della secessione viennese, era un evidente richiamo alle corporazioni commerciali ostiensi che per accrescere il loro decoro costruirono grandiose insulae. 25 Così si espresse la Commissione giudicatrice del concorso nella relazione finale: “Ma dopo matura disanima la Commissione ha dovuto riconoscere come quest’ultima concezione, mentre non vieta lo sviluppo individualistico delle varie botteghe della stessa arte, le riunisce giustappunto all’odierno concetto corporativistico ( . . . ). E d’altra parte gli opportuni aggruppamenti in nuclei determinati rispondono a criteri di economia e di industrializzazione, mediante la praticità e la semplificazione degli impianti comuni ( . . . ). Sulla stessa linea è infine il progetto del Gruppo Aschieri il quale, a parere unanime della Commissione, primeggia su tutti gli altri per profondità di studio, per praticità d’insieme, per l’originalità e la genialità della concezione generale e di dettaglio”.26 La Commissione con il suo giudizio sottolineò le differenze dei vari linguaggi architettonici presenti a roma in quegli anni, ma soprattutto preferì tra essi quello con chiari riferimenti formali e culturali alla romanità tracciando così una netta discriminazione, frutto delle scelte che l’ambiente romano si avviava a fare. Inizia infatti con questo concorso di progettazione, ed alcuni altri, una lunga serie dedicata all’edilizia popolare ed economica, su iniziativa del Governatorato e degli enti, che si estese per tutti gli anni venti, spostandosi successivamente ad affrontare il tema delle attrezzature pubbliche, che dopo il 1930 il regime fascista scelse come momento di autorappresentazione nella città e della sua riqualificazione abitativa. Per continuare ad analizzare e comprendere meglio quali effetti ebbe l’opera di Calza e Gismondi ci sembra necessario, a questo punto della nostra analisi, introdurre il “caso particolare” di Roma, rispetto alle altre città italiane, nel periodo tra le due guerre.
3-L’Ambiente politico, sociale e culturale in cui operarono Calza e Gismondi.
La vicenda romana si configurò, fin dal momento in cui la città divenne capitale, del tutto differente rispetto a qualsiasi altra città italiana. A Roma si sentiva la necessità di rappresentare ad un tempo il carattere della città, nel suo patrimonio storico, e lo spirito della nazione. Giosuè Carducci nei suoi discorsi letterari e storici, Dello svolgimento della letteratura nazionale, 27 tenuti a Bologna tra il 1867 e il 1871, gli anni in cui fu trasferito a Roma il ruolo di capitale, sosteneva già il bisogno di leggere la storia delle nostre lettere oltre i caratteri locali, di rintracciare un filo conduttore che, inevitabilmente, avesse come riferimento il mondo romano. Egli considerava la romanità come componente unitaria delle culture regionali. Il pensiero carducciano, anche se assai precedente al periodo analizzato, definì con lucidità gli avvenimenti che portarono Roma, simbolo dell’intera nazione, ad esprimere nella sua architettura sia una immagine che fosse rappresentativa della unità del paese, sia contribuire a rafforzare l’orgoglio nazionale attraverso l’esaltazione del passato. Il ritorno alla romanità, al patrimonio archeologico e storico, della capitale doveva rappresentare un simbolo della nuova unità d’Italia, perché l’eredità del passato avrebbe riunito e fuso insieme le numerose tradizioni locali per generare un unico stile nazionale. “Nella realtà, lo sviluppo di Roma dopo il 1870 avvenne in modo frammentario, con profondi squilibri, oscillando fra l’istanza di un piano che desse l’impronta alla nuova capitale e la realtà delle pressioni attuate dalla speculazione fondiaria. Al mito di una storia secolare, che troppo spesso sconfinava nella retorica della “romanità”, si contrapponeva la realtà di uno sviluppo economico debole e di una crescita urbana con aspetti caotici e incontrollati ( . . . )”. 28 A Roma la presenza storica era molto sentita, tanto da determinare un dialogo continuo con le forme del passato alle quali si riusciva a far fronte con ambigue operazioni accademiche. ciò determinò lo sviluppo di numerosi stili, dal neomedievalismo, al neogotico, al barocchetto, al modernismo, che si rifacevano in diverso modo alle valenze formali della Roma storica nella ricerca delle soluzioni più adeguate. Anche il “fascino del rudere”, incrementato dall’opera piranesiana, ebbe su molti architetti romani una notevole influenza e contribuì a sviluppare nelle loro opere un certo gusto al monumentale, al graficismo che non poco peso ebbe sull’architettura del tempo. In seguito interverrà il fascismo, che con una diversa interpretazione della romanità, rivolta più alla Roma dei Cesari e non a quella dei Papi, diede un nuovo significato al rilancio della latinità abbandonando del tutto la suadente edilizia romana cinque-seicentesca. Infatti il regime fascista, inizialmente in modo moderato poi con totale autorità, impose il ritorno al classico adottando colonne, frontoni, la simmetria, il punto di fuga, in modo tale da generare uno stile rappresentativo che potesse essere ripetuto in tutta la nazione. Il bisogno di identificazione ideale con il passato incrementò notevolmente le scoperte e gli studi archeologici. Oggetto dell’archeologia, della storia dell’arte, della cultura era tutto ciò che apparteneva agli antichi dominatori del Mediterraneo, a differenza degli archeologi francesi i quali “avevano riconosciuto che tutto il passato ha contribuito alla formazione del nostro presente ed è perciò tutto parte insostituibile della nostra formazione spirituale e della nostra cultura”, gli archeologi italiani “erano tutti fermi al 476 d. C., ma ancora più grave è che fossero fermi ad una concezione puramente stilistica e monumentale”. 29 Gli sventramenti nella capitale, iniziati negli anni venti e portati avanti per tutti gli anni quaranta, cambiarono totalmente il volto della vecchia Roma. A partire dalla demolizione delle case tra la salita del Grillo e il monumento a Vittorio Emanuele II per mettere in luce i ruderi dei mercati Traianei, del Foro di Traiano, di Cesare e di Augusto (1924), fino ad arrivare alla distruzione della spina di Borgo nel 1937, furono tutte opere che mirarono ad isolare ed a celebrare il singolo monumento senza considerare tutto il contesto che li circondava perché componente non romana ma medievale, rinascimentale o barocca. 30 “L’idee di Mussolini, che voleva vedere giganteggiare nel deserto i monumenti dell’antica Roma, trovarono immediatamente alleati negli archeologi, a cui un tale programma offriva enormi possibilità di lavoro. Si poté fare tutto in nome dell’archeologia e l’archeologia divenne quindi rapidamente scusa e pretesto”.31 Oltre allo scopo archeologico, gli sventramenti fascisti ebbero anche un ruolo risanatore nella vecchia città. Infatti le zone demolite erano composte in grandissima parte da case diroccate e malsane che non interessavano al governo, il quale preferì sostituirle con edifici pubblici più adatti al nuovo centro monumentale e rappresentativo di Roma. Un altro aspetto che rivela quanta importanza fu data all’archeologia sono le mostre sulla romanità. Prima fra tutte fu quella che rientrava nel programma dell’esposizione Internazionale di Roma, del 1911, organizzata per la ricorrenza del cinquantenario del Regno d’Italia. La mostra Archeologica fu allestita nelle Terme di Diocleziano nelle cui sale furono raccolti calchi e plastici di monumenti romani al fine di documentare le tracce della cultura lasciata da Roma nei territori dell’Impero. La mostra fu curata da Rodolfo Lanciani il quale si augurava che l’opera intrapresa, di raccolta, catalogazione ed esposizione di tutto il materiale possibile per ricomporre un quadro della civiltà romana sotto l’impero, potesse essere fonte d’ispirazione per la gioventù italiana. Inoltre nel suo discorso per l’inaugurazione della mostra, l’8 aprile 1911, così disse: “( . . . ) apparirà come tutti questi paesi, che già furono antiche nostre provincie, siano ancora governati dalle leggi romane, e come i loro abitanti battano ancora le strade da noi costruite, valichino i monti attraverso i passi da noi aperti, i fiumi per via dei ponti da noi gettati, bevano le acque da noi allacciate, ( . . . )”.32 Rimarcando così l’opera di civiltà compiuta da Roma nel mondo antico. La mostra offrì un quadro di così alto interesse scientifico e culturale che fu espresso il desiderio che divenisse stabile. Così il materiale passò allo Stato ma fu solo nel 1926 che si poté creare un Museo dell’Impero Romano. Inaugurato nel 1929, il museo fu organizzato nel caseggiato dell’ex pastificio Pantanella a piazza Bocca della Verità, allo scopo di proporsi come archivio e centro di studi sulla civiltà romana. llestito e curato da Giulio Quirino Giglioli comprendeva tutto il materiale ereditato dalla mostra dell 1911 arricchito da alcune raccolte per l’illustrazione della vita romana. Nello stesso tempo il Giglioli proponeva di organizzare una nuova grande mostra archeologica in occasione del bimillenario della nascita dell’imperatore Augusto. Il 23 settembre del 1937 venne inaugurata la grande Mostra Augustea della Romanità nel Palazzo delle Esposizioni di via Nazionale 33. Preparata accuratamente a partire dal 1932, da un folto gruppo di studiosi tra cui Guido Calza e Italo Gismondi, conferì al primo imperatore di Roma una esaltazione di rilievo tipica del clima politico dell’epoca. Divisa in ottanta sezioni che si riferivano a tutti gli aspetti della vita romana (civile, militare, religiosa, familiare, etc.), dalle origini di Roma, VIII secolo a. C., sino al suo tramonto nel IV secolo d. C., la mostra era costituita totalmente da ricostruzioni di monumenti, a volte anche al vero, corredate da fotografie, grafici, carte geografiche e scritte esplicative. Furono chiamati a collaborare numerosi stati dell’Europa, dell’Africa, dell’Asia, dell’America i quali, tramite le testimonianze conservate nei musei e nelle collezioni private diedero un forte contributo alla ricostruzione del vasto impero romano. Naturalmente la mostra doveva essere un forte richiamo al potere fascista unico erede di tanta gloria romana. Così si leggeva all’ingresso della mostra: “Le glorie del passato siano superate dalle glorie del futuro”. Italo Gismondi, nominato consulente generale generale per le ricostruzioni architettoniche, si occupò dell’allestimento architettonico e decorativo di moltissime sale e della realizzazione di numerosi plastici tra cui quelli dell’insula ostiense, di villa Adriana e del porto di Traiano. Guido Calza invece collaborò alla preparazione scientifica di alcune sale riguardanti la vita pubblica, il diritto, la vita familiare e addirittura la moda. Nell’allestimento architettonico e decorativo della mostra lavorarono anche giovani architetti tra cui Mario Paniconi, Giulio Pediconi e Ludovico quaroni, dei quali ci occuperemo nei prossimi capitoli, la cui esperienza alla Mostra Augustea della Romanità contribuì ad arricchire la loro formazione culturale. I primi due si occuparono dell’allestimento di sette sale tra cui la sala dell’Impero, quella di Giulio Cesare, di Augusto L’architetto Quaroni invece collaborò con l’architetto V. Colasanti nell’allestimento delle sale sull’origine di Roma, dei ritratti, sulla vita familiare L’immensa collezione di ricostruzioni, che conteneva tra l’altro un grandioso plastico di Roma imperiale in scala 1:250 ( basato sulla forma urbis ipotizzata dal Lanciani ), al termine della mostra, fu deciso di riproporla nell’ambito del programma dell’Esposizione Universale del 1942, con il titolo di Mostra della Romanità. 34. Gli eventi bellici determinarono notevoli ritardi per la realizzazione del Palazzo del Museo della Civiltà Romana, progettato da P. Aschieri, D. bernardini, C. Pascoletti e E. Peressutti, e anche sostanziali mutamenti nel progetto originario, il museo fu inaugurato solo nel 1955. la sua impostazione rispecchia i criteri generali della mostra augustea, avendo ereditato un immenso materiale storico-archeologico raccolto in più di cinquanta anni di duro lavoro dai più illustri studiosi, storici ed archeologi del tempo. Indubbiamente tutto il materiale iconografico fu una ricca fonte di idee per molti architetti che operarono a Roma tra le due guerre. Diretta conseguenza del nuovo ruolo nazionale della capitale fu la crescita urbana determinata dal forte aumento della popolazione, che trovava in Roma nuovi sbocchi lavorativi, soprattutto quel ceto medio impiegatizio, nell’enorme apparato burocratico che si andava formando. Dal 1920 al 1940, dopo le grandi opere monumentali degli edifici rappresentativi, l’attività edilizia abitativa ebbe un ruolo fondamentale per la crescita della città il cui volto si trasformò attraverso una in apparenza illogica dispersione di forze, in operazioni urbanistiche ed architettoniche diversificate, che in realtà fu una coerente risposta alla richiesta del mercato edilizio. A Roma si delinearono così due mondi contrapposti: un centro di respiro nazionale e una periferia popolare delle borgate, distaccata dalla città. Entro queste due realtà si andò formando una “ fascia intermedia ove si insediò la città degli impiegati e degli addetti ai servizi, dell’apparato ecclesiastico e delle forze armate, dei commercianti e delle organizzazioni fasciste, dei nuovi servizi pubblici e delle attività per il tempo libero”.35 Infatti, come abbiamo visto, durante il fascismo la città storica fu sottoposta a grandi sventramenti per isolare le rovine della Roma imperiale che dovevano testimoniare il passato glorioso e celebrare il rinnovato splendore. Contemporaneamente si andavano formando le borgate, spesso costituite da baracche, che dovevano raccogliere gli abitanti sfrattati dalle aree demolite. Ma oltre alla parte monumentale, a cui li regime diede sempre grande peso, si tentò di dare un assetto urbano anche alla parte di città destinata alla piccola e media borghesia dell’impiegato pubblico, in principio con quartieri a villini e “palazzine”, poi con i quartieri a media ed alta densità, promossi dall’edilizia sovvenzionata dallo stato, ed infine con le case convenzionate, grandi intensivi con alloggi piccoli e tipologie a blocco collocati in zone semiperiferiche della città e costruiti da imprese private. Gli interventi da realizzare, quelli rappresentativi del regime e quelli di edilizia abitativa, si basarono entrambi sul concetto di romanità. La stessa archeologia era utilizzata, con le nuove scoperte e con il recupero e valorizzazione del suo patrimonio, come richiamo alla latinità. C’era però una netta distinzione che si faceva, sul piano dell’attribuzione dei significati, fra le testimonianze dell’architettura aulica e monumentale e le testimonianze dell’edilizia abitativa minore. Il modello della Roma imperiale, riconoscibile nelle tipologie del tempio, dell’anfiteatro, dei palazzi, delle terme ecc., si presentava dimensionalmente e simbolicamente adatto per l’intervento a scala “pubblica”, si vedano, a tale proposito i progetti di Fasolo, Del Debbio ed Aschieri per il concorso del monumento-ossario al Verano 36 del 1922, dove ad esempio nel progetto di Aschieri è evidente la citazione di un motivo decorativo tratto dalla porta Maggiore a Roma. alcuni progetti di Alessandro Limongelli 37 tra cui quello del 1926 per il concorso del palazzo delle Società delle Nazioni Unite dove reinterpretò in modo scenografico e magniloquente edifici dell’antichità romana. Oppure lo stabilimento balneare “Roma” alla marina di Ostia realizzato da Giovani Battista Milani, nel 1924, utilizzando sfacciatamente l’impianto delle terme romane e numerosi elementi compositivi tratti dalle vicine rovine di Ostia antica. Così Gustavo Giovannoni 38 presentava il progetto sulla rivista Architettura e Arti Decorative: “ (. . . ) nei ricordi dei grandi edifici romani che specialmente fanno capo alla suggestiva località, fa assurgere ad importanza architettonica che quasi riveste carattere monumentale un tema che ordinariamente si perde nella goffa banalità della baracca di fiera”.39 Le stesse riviste nei due decenni tra il venti e il quaranta, applicarono un forte protezionismo culturale pubblicando ben poco dell’architettura contemporanea europea, e quel poco venne subito trattato nei termini del dibattito locale, dando invece ampio spazio alle scoperte archeologiche, e a tutto ciò che si rifaceva al passato italico, latino, romano della cultura e dell’architettura perché in essi si ritrovavano regole costanti, valori certi e permanenti. Infatti in Architettura ed Arti Decorative furono molti gli articoli che cercarono di dare “ ( . . . ) spunti originali e armonie insolite che l’anima moderna sempre avida di nuove esperienze può tradurre in forme adatte alla sensibilità dell’oggi”40, e nei quali pubblicarono numerose ricostruzioni di modelli dell’epoca romana. La rivista attraverso la direzione di Piacentini e di Giovannoni fu impegnata a costruire gli elementi di riferimento di una tradizione culturale romana dell’abitare, fondata sulla ricostruzione di una immagine dell’antichità. Tra i tanti articoli ricordiamo quello dedicato a Walcot, nel 1922, in cui venivano presentate suggestive visioni ricostruttive della basilica di Costantino, delle terme Antoniane, dell’anfiteatro Flavio; e anche, naturalmente, quello scritto da Calza con le ricostruzioni grafiche di Italo Gismondi sull’abitato di Ostia antica. Questi due tipi di pubblicazioni ci rivelano ancora una volta il duplice interesse della cultura del tempo nei confronti della romanità. Uno rivolto al monumentale che si prestava meglio a soddisfare, nelle regole di simmetrie e delle armonie, l’ideale di rappresentatività del fascismo, l’altro rivolto al modello dell’edilizia minore, quale poteva essere quello pompeiano o quello ostiense, perché più adatto per l’ambito del “privato”, cioè di tutta l’edilizia abitativa popolare e signorile che in quegli anni si andava costruendo. Furono molti i progetti che si rifacevano al modello artistico e culturale della casa pompeiana ad atrio, presa ad esempio prevalentemente nella tipologia della villa per la committenza borghese. Infatti sia le campagne di scavi , illustrate in studi specifici e pubblicizzate dalle riviste 41, alle quali si affidava il compito di restituire alla conoscenza del grande pubblico aspetti sempre nuovi del fascino della casa pompeiana, sia la divulgazione, attraverso il film Gli ultimi giorni di Pompei con le suggestive scenografie disegnate da Vittorio Cafiero nel 1926, contribuirono al rilancio del mito di Pompei. La tipologia della domus venne presa come esempio nella composizione di moderne proposte abitative prima di tutto per il suo impianto plani-volumetrico, che veniva spesso elaborato con l’aggiunta di nuovi elementi, e in secondo luogo per la volontà di riproporre un modello simile di vita domestica tutto rivolto verso l’interno della costruzione che ben si adattava alla tipologia della villa. Gli esempi che ci illustrano la riproposizione della domus sono molti tra cui quello presentato da Giò Ponti 42, nel 1934, per la IV Triennale di Monza. Il progetto intitolato “villa alla pompeiana” 43 doveva essere una casa di campagna e consisteva in un cortile centrale chiuso su tre lati dall’edificio e aperto sul quarto, in cui si innestavano elementi di linguaggio neopalladiano. Anche l’architetto Pierluigi Magistretti realizzò a Milano una villa a due piani che riproponeva uno spazio centrale porticato da colonne con al centro una vasca, che all’originale domus serviva per raccogliere l’acqua piovana. La villa aveva un aspetto indubbiamente molto più imponente e movimentato rispetto al riferimento antico. 44 Un altro progetto, assai tardo rispetto all’insorgere del revival neo-pompeiano, è quello presentato da Ludovico Quaroni 45 per la Mostra dell’Abitazione che si sarebbe dovuta svolgere durante l’Esposizione Universale di Roma del 1942. La mostra a carattere permanente proponeva un organico quartiere signorile, in cui gli edifici con le loro tipologie e le loro caratteristiche avrebbero dovuto rappresentare la soluzione del problema dell’abitazione moderna. La casa a patio proposta da Quaroni, nel 1940, era l’esempio di ciò che la cultura del tempo intendeva per “moderno” e cioè un edificio progettato secondo schemi tradizionali pur con elementi compositivi, come la distribuzione degli ambienti o le grandi vetrate, ripresi da lessico dell’architettura contemporanea. “ All’estrema semplicità tipologica e funzionale si accompagna un gioco linguistico essenzializzato, fatto di pieni e di vuoti, in un ritmo elementare sulla superficie scandita da colonne e pilastri - tondi o quadrati ha poca importanza - come valori puramente indicativi e simbolici. 46 Per quanto riguarda Ostia i modelli di riferimento per l’architettura del tempo furono sia quello a scala “pubblica” che quello a scala “privata”. La duplice lettura dei reperti archeologici ritrovati fu possibile perché Ostia rappresentava nella sua interezza il modello di una città imperiale, con il centro direzionale, politico, religioso ( foro e Capitolium ), ed economico ( teatro e piazzale delle Corporazioni), e con in più, rispetto alla vicina Roma, le numerose e differenziate tipologie residenziali. Per questo l’antica città oltre ad essere fonte di elementi stilistici e compositivi per gli interventi monumentali e rappresentativi del fascismo, rappresentò, attraverso la tipologia dell’insula, quel modello abitativo, adatto al ceto medio impiegatizio, scelto dal regime per assicurare un genere edilizio tradizionale alla classe sociale che meglio rappresentava il suo potere.
4-L’insula e la casa popolare degli anni venti e trenta entrambi risultato di un determinato contesto storico.
Il particolare periodo storico che Roma attraversava, durante l’operato di Guido Calza e Italo Gismondi, si potrebbe ritenere per alcuni versi simile a quello attraversato ad Ostia nell’età del suo maggior splendore. Ad Ostia l’aumento del livello della produzione industriale e commerciale portò ad un incremento della popolazione, ad una agiatezza economica e, nel contempo, ad una differenziazione delle classi sociali in corrispondenza dei mutati rapporti della divisione del lavoro. Da una parte permaneva ancora la forza politica decisionale dell’oligarchia aristocratica ( la corte dell’imperatore ), dall’altra continuava a vegetare un proletariato urbano in condizioni miserevoli. Tra questi due poli si stava formando una classe intermedia che andava da quella equestre, con compiti terziari ed amministrativi, a quella commerciale, impiegatizio imprenditoriale, professionale. L’abitazione avrebbe così dovuto risolvere la necessità di alloggi e il bisogno preciso, anche sul piano architettonico, di esprimere la consapevolezza delle nuove potenzialità raggiunte in campo sociale ed economico dalla classe medio-borghese”. Infatti i piccoli artigiani ed imprenditori, gli impiegati e gli ufficiali dell’esercito non fecero altro che adattare l’antico tipo della domus alle nuove esigenze, anche se con una impostazione architettonica del tutto differente ed indipendente, nacque così la casa d’affitto. Con l’aumento demografico e della popolazione fu incrementata vertiginosamente la costruzione di nuove abitazioni, anche i prezzi delle aree fabbricabili aumentarono e ciò comportò sul piano edilizio lo sviluppo in altezza delle insulae e la limitazione della loro estensione e dell’ampiezza dei vani. L’edilizia fu in questo periodo, insieme al commercio, la principale attività produttiva della capitale e la principale fonte di occupazione per i suoi abitanti. Nacque anche una vasta gamma di tipi di abitazione a seconda delle diverse possibilità finanziarie degli affittuari, e l’intero tessuto urbano cominciò ad essere sistematicamente coperto da una rete di strade, che caratterizzarono topograficamente le zone della città occupate dall’insulae. La formazione di questo determinato aggregato spaziale rispondeva perfettamente alle esigenze proprie di quella compagine sociale. Quindi l’insula fu la risposta funzionale a livello spaziale di uno stadio particolare della evoluzione della società romana antica. 47 Il contesto storico in cui si sviluppò la casa ostiense a noi sembra contenere degli aspetti riconducibili al momento storico in cui si sviluppò la casa popolare romana. L’immigrazione nella città, l’aumento della popolazione, la classe sociale che si andò formando, la necessità di nuove abitazioni e anche le caratteristiche di quest’ultime ( più piani con appartamenti in affitto, l’areazione e l’illuminazione oltre che dalla strada anche dal cortile interno, il rapporto altezza isolato con la larghezza della strada ecc. ), furono tutti elementi che indubbiamente coincisero e che Calza e Gismondi non poterono fare a meno di mettere in evidenza e di commentare nei loro studi. Nella capitale il problema della casa aveva assunto, nel periodo fra le due guerre, dimensioni eccezionali. per risolverlo si intervenne in modo disomogeneo nelle diverse parti della città a seconda di quale era il ceto sociale a cui si destinava l’intervento. In definitiva il patrimonio edilizio che si andò formando in quegli anni era destinato soprattutto ai ceti medi, prevalentemente impiegatizi, in quanto Roma stava diventando sempre più il luogo di abitazione degli addetti alla amministrazione dello stato. A questa fascia sociale veniva attribuita quella parte di città il più possibile vicina alle sedi dei luoghi di lavoro, verso il settore nord-est, che offriva un migliore livello di infrastrutture. Accanto al ceto medio fu preso in considerazione il ceto popolare, rappresentato prevalentemente da forza lavoro impiegata nell’edilizia, il quale venne il più delle volte emarginato e ghettizzato in parti lontane dal centro della città spesso mal collegate e prive di infrastrutture. Anche a Roma, come era accaduto ad Ostia, questa differenziazione dei luoghi di abitazione dei vari ceti determinò nel tessuto della città una forte caratterizzazione della topografia urbana a seconda del tipo di abitazione che vi era stata realizzata. Così nella fascia compresa tra il centro e la periferia, dove si andarono stanziando gli interventi per il ceto medio, il tessuto risulta tutt’oggi omogeneo e ben disegnato, si vedano ad esempio i quartieri Mazzini, Flaminio e trionfale. Mentre, esclusi gli esperimenti delle “città giardino” Garbatella e Aniene, i quartieri per l’edilizia popolare furono realizzati in modo disomogeneo e disorganico. A parte le innumerevoli cooperative edilizie, chi si occupò di realizzare sia l’uno che l’altro tipo di intervento furono principalmente due enti: l’Istituto romano Cooperativo per le case degli Impiegati dello Stato ( IRCIS ), inglobato in seguito nell’INCIS, e l’Istituto per le case popolari ( ICP ), impegnato a realizzare interventi secondo direzioni divergenti. L’IRCIS fu costituito nel 1909 come ente specifico per la casa agli statali e successivamente inglobato, tra il 1930 e il 1933, nell’Istituto Nazionale per le case degli impiegati dello stato ( INCIS ) 48. L’ente scelse di costruire alloggi a proprietà indivisa con tipologie ad alta densità, il più possibile vicine ai ministeri o ad altri importanti uffici della capitale. Successivamente, con la fondazione dell’INCIS, si preferì la casa in affitto, piuttosto che in proprietà, e una tendenza, soprattutto a Roma, di integrare i propri interventi mantenendo una certa continuità con il contesto in cui si andavano inserendo piuttosto che contrapporsi ad esso. Così venne sintetizzato lo stile delle abitazioni da realizzare: “ ( . . . ) che l’architettura sia semplice, e, pur mantenendosi nei limiti della maggiore economia, si apri quanto allo stile e al movimento delle masse al carattere storico locale, e, comunque, non sia con questo in contrasto”. Ciò determinò la diffusione a scala nazionale dei principi dimensionali e tipologici sperimentati a Roma; così per la prima volta nella storia dell’Italia Unita, la capitale assunse, probabilmente più per l’inerzia dei fatti che per scelta cosciente, anche un ruolo di guida nazionale. L’IRCIS ma soprattutto l’INCIS, durante il fascismo, ebbero “ ( . . . ) L’intento preciso di rassicurare una tradizione culturale che si fondava sul linguaggio dell’abitare nelle grandi città ottocentesche”. 49 Infatti i due enti seguirono una linea politica costante, tipologicamente corrispondente ai bisogni dei ceti impiegatizi, di attuare gruppi di fabbricati di notevole consistenza, con una relativa incentivazione di servizi comuni, dai negozi ai piani terreni, ai giardini condominiali; privilegiando inoltre come ambito operativo lo sviluppo delle possibilità date dalla razionalizzazione della edilizia a blocco, con la costruzione perimetrale dell’isolato. Furono proprio queste le tipologie a cui Calza si riferì nei suoi testi riconoscendo in esse i principi costruttivi e distributivi tipici dell’insula Significativi esempi sono gli edifici costruiti da Quadrio Pirani a Testaccio ( per lo ICP ), a piazza Mazzini e a via Chiana ( entrambi per l’INCIS ), tra il 1920 e il 1924. La tipologia adottata è quella a corte con spazio libero sistemato a giardino dove i corpi scala rappresentano gli elementi ordinatori e distributivi dell’edificio come era in quelli ostiensi. Altro aspetto dell’architettura di Pirani è la scelta dei materiali da costruzione, egli privilegiava nella parte basamentale il travertino o i mattoni a faccia vista, mentre nella parte superiore l’intonaco liscio e l’uso dei ricorsi di mattoni per segnalare l’architrave delle bucature o le fasce marcapiano. L’utilizzo, sul piano strutturale, di elementi lapidei in travertino 50 tra le murature laterizie, come si può vedere nell’architettura ostiense, ad esempio negli Horrea Epagathiana, è ripreso, sul piano decorativo, in alcuni dettagli di portali d’ingresso o di finestre degli edifici di Pirani, come ad esempio quello di Testaccio. La corte centrale, fonte di luce e aria, sistemata a verde e dotata dei servizi comuni ( stabilimento dei bagni, magazzini, botteghe, lavatoi ), era indubbiamente, anche se con altre proporzioni, la riproposizione moderna del cortile dell’insula. L’uso dei pini terra prevalentemente a negozi, la composizione dell’edificio determinata dagli alloggi, i passaggi coperti che univano la strada al cortile, i corpi delle scale separati dagli ingressi usati come elementi distributivi ed ordinatori dell’intero isolato, queste ed altre sono le caratteristiche comuni che fanno della casa popolare romana una diretta erede dell’insula ostiense. La nuova tipologia, pur essendo un evidente conseguenza del blocco ottocentesco, ripropose le caratteristiche dell’antica abitazione senza aver avuto un diretto confronto con essa, sono di poco precedenti le prime pubblicazioni di Calza, come se, nel momento in cui si ricrearono i presupposti simili a quelli che hanno favorito la nascita dell’insula, si potè progettare il nuovo edificio. A tale discorso sono riconducibili anche gli edifici realizzati dallo ICP 51 per l’edilizia economica e popolare. Fondato per far fronte all’enorme richiesta di abitazioni nel primo dopoguerra l’istituto ebbe una importante funzione ideologica come strumento di elevazione-integrazione delle classi popolari. “Da interventi paternalistici o filantropici nasce la tipologia della casa popolare, bruttissima copia dell’edilizia borghese più corrente, la quale a sua volta riecheggia ora questo ora quello tra gli stili del passato” 52. Ciò che ci sembra importante per la nostra analisi è che i vari interventi dello ICP, a differenza di quelli dell’IRCIS e dell’INCIS tutti mirati per un’unica classe sociale, ospitavano una popolazione di ceti sociali diversi, più o meno elevati, formati prevalentemente da immigranti che cercavano di integrarsi nella capitale. Questo stato delle cose ci riconduce all’utenza dell’insula ostiense anch’essa formata da classi sociali differenti che convivevano in un’unico edificio la cui tipologia soddisfaceva le varie esigenze. Si cercò così, negli anni tra le due guerre, di realizzare una tipologia adatta ai diversi ceti prevalentemente basata sul tipo a blocco che non fu mai una vera alternativa al modo di costruzione della città borghese. Ci sembra interessante, a questo punto, analizzare l’iter progettuale di uno dei protagonisti di quegli anni della costruzione della città finanziata dall’intervento pubblico: Innocenzo Sabbatini. 53 Fu nel 1919 che l’architetto iniziò la sua collaborazione con l’Istituto Case Popolari di Roma, nel quale , solo nel 1927, ricoprì l’incarico di capo ufficio Progetti. Subito fu impegnato nel progetto del complesso di trionfale II, il cui schema planimetrico e le piante erano state già elaborate dal cugino innocenzo Costantini. Anche questi edifici, come quelli di Quadrio Pirani, dai quali molto fu ripreso, si mantengono in linea con la tradizione ottocentesca degli intensivi anche se con riferimenti al Liberty. I lotti furono progettati da movimentati isolati a corte, la cui decorazione delle facciate ripeteva la sequenza di mattoni su un fondo di intonaco ruvido alternata a elementi in pietra. Dopo qualche anno Sabbatini affrontò il nuovo complesso di Trionfale III ( 1923 ) dove, pur riproponendo il tradizionale blocco romano di edilizia residenziale multipiani, l’architetto iniziò ad utilizzare il tema neo-romano anche se filtrato attraverso un’interpretazione cinquecentesca. Compaiono le grandi finestre semicircolari a coronamento dei fabbricati, tipico elemento termale, che poi ritroveremo a piazza d’Armi II e nell’edificio dei Bagni alla Garbatella. Ed è proprio il tema della tradizione di Roma antica che a noi interessa in quanto Sabbatini fu, nell’ambiente romano fra gli anni venti e quaranta, una delle figure che meglio ci rappresentano quanto fu intensa l’eredità classica, sia quella rappresentata dalle architetture auliche della Roma imperiale sia, come vedremo, quella dell’architettura minore caratterizzata dall’insula di Ostia antica. Continuando ad analizzare gli interventi fatti per lo ICP da Sabbatini, quello di Piazza d’Armi II ( 1925-26 ) rappresenta indubbiamente lo spartiacque tra il periodo di influenza del “barocchetto” e la maturità raggiunta all’interno della “scuola romana”. Infatti in questo progetto è chiaro il progressivo aumento della plasticità delle forme che traggono origine dalla romanità piranesiana che caratterizzerà buona parte della produzione dell’architetto fino alla sua uscita dall’istituto nel 1931. Così Piacentini, in un articolo su Architettura e Arti Decorative del 1921, descrisse l’opera di Sabbatini: “ ( . . . ) caratteristica fondamentale, che ritroviamo nelle opere più stilistiche come in quelle più rivoluzionarie: ed è la sobrietà, la sintesi, la rinuncia” :questo è il primo passo, il successivo logicamente sarà il ritorno” (. . .) alle antiche leggi delle grandi architetture del passato”. 54 Nell’edificio realizzato qualche anno dopo (1927-30) in via Arminjon sono presenti alcuni temi più ricorrenti nell’opera di Sabbatini. Uno tra i più interessanti è l’uso del portale, composto da una elaborata trabeazione, come unico elemento decorativo delle facciate che l’architetto ripetè identico nei tre prospetti principali e su cui risalta fortemente. Questo modo di caratterizzare la facciata e la composizione stilistica e decorativa dei portali ripetendo, in modo più elaborato, gli esempi ostiensi, ricorrevano spesso nell’opera di Sabbatini, come si può vedere nell’edificio su via della Lega Lombarda, la “casa del sole” ( 1929-30 ), dove l’ingresso dell’edificio, anch’esso segnato dalla trabeazione, ripropone l’antico angiporto dell’insula. Ritornando al progetto di viale delle Milizie, anche i due corpi sporgenti su via Arminjon reinterpretano l’impalcato delle facciate ostiensi costituito dal porticato con colonne, chiuso per far spazio a delle botteghe, e dalla loggia superiore sormontata da un terrazzo il tutto rielaborato in chiave moderna. La storia non costituì per Sabbatini un riferimento culturale ma piuttosto uno strumento per l’individuazione di una tradizione basata sul recupero, di volta in volta, di elementi a grande scala, tecnologie e materiali presi dal repertorio classico presente ovunque intorno a lui. Chiaro esempio di questa metodologia progettuale è l’edificio dei Bagni pubblici alla Garbatella. Alcuni interventi dello ICP furono realizzati in aree lontane dal centro, per il ceto più popolare, essi sono una città e un sobborgo giardino, alla Garbatella e a Monte Sacro, iniziate nel 1920 con la diretta partecipazione di Gustavo Giovannoni. I nuovi quartieri erano il risultato delle teorie giovannoniane sul decentramento urbano, che prevedeva una periferia articolata in città satelliti costruite secondo criteri urbanistici moderni. Alla Garbatella furono sperimentate diverse tipologie tra cui i villini a due o tre appartamenti o unifamiliari, edifici per abitazione comuni, i grandi alberghi suburbani realizzate in fasi differenti e da vari architetti. Ad Innocenzo Sabbatini gli fu affidata la progettazione di vari edifici ma quelli che a noi interessa analizzare sono quelli in cui rielaborò i repertori classici.
Per l’edificio con i bagni pubblici costruito a piazza G. B. Romano ( 1926-27 ) l’architetto scelse come riferimento analogico l’insula ostiense nella quale era inserito un piccolo stabilimento termale. La parte basamentale del prospetto lungo via Ferrati, trattato in cortina laterizia, viene chiusa da un lungo balcone il cui prototipo lo si può trovare nella casa di Diana a Ostia a lui nota per le ricostruzioni di Italo Gismondi pubblicate in quegli anni. Anche qui l’ingresso all’edificio è messo in evidenza con colonne che sorreggono la trabeazione. Se confrontiamo la facciata in esame con la ricostruzione degli Horrea Epagathiana la partitura di quest’ultima è, pur in proporzioni differenti, chiaramente ripresa nel progetto alla Garbatella. “Da questo momento in poi si modifica in Sabbatini anche il modo di far decorazione che non è costituito soltanto dall’elemento plastico sovrapposto ma diviene tessitura e scaturisce dalla plasticità della massa muraria e dal materiale con il quale questa plasticità è ottenuta. Ciò è frutto di un modo di intendere la decorazione diverso da quello del primo periodo, non è più impiegata la tecnica artigianale secondo canoni ottocenteschi ma ci si rifà anche in questo alla tecnica costruttiva romana”. Scorrendo velocemente l’opera di Sabbatini si nota in molti progetti il riferimento privilegiato all’architettura residenziale e termale dell’antica Roma come ad esempio nell’edificio cinema-teatro e residenze ( 1927-30 ), sempre alla Garbatella, in cui è evidente il recupero delle memorie romane non solo nel “bastione” curvilineo che racchiude il cinema ma proprio nella sovrapposizione e integrazione tra i due organismi. Per concludere l’analisi dell’opera di Sabbatini , analizzata prevalentemente da un punto di vista più interessante per il nostro studio, arriviamo ai due edifici realizzati nel 1927-29 a via Marmorata a Testaccio. Questi sono la parziale realizzazione di un complesso più vasto progettato per lo ICP, che sarebbe dovuto culminare in una piazza interna circolare. Ambedue gli edifici hanno una triplice partitura orizzontale, che ne individua, di volta in volta, la struttura e le funzioni. Ad esempio la diversificazione formale della parte basamentale è l’esplicita dichiarazione della diversità strutturale essendo stata realizzata in muratura la parte bassa con un rivestimento in pietra artificiale, mentre la parte alta è in cemento armato con mattoni in vista all’esterno. Nei due edifici le finestre non sono sottolineate da elementi stilistici ma determinano delle zone di vuoti e pieni nella grande massa muraria riportandoci in questo modo alle facciate delle insulae solitamente coronate, come si può leggere nelle ricostruzioni di Gismondi, dal timpano triangolare presente anche negli edifici di Testaccio. La ricchezza costruttiva dei due edifici sia per l’uso dei materiali ( intonaco, pietra e laterizio ) sia per la plasticità data alla massa muraria conferiscono all’insieme un arcaismo stilistico “ E’ proprio in questo senso che va vista e riletta l’opera di questo architetto come memoria lontana ma presente in cui l’arcaismo è il sintomo di un ripensamento storico che può acquistare dimensione rinunciataria e la sintetizzazione, non semplificazione, di elementi di memoria classica portano ad un loro uso, disinvolto, senza inibizioni, in chiave, quindi, di ricerca all’interno di una architettura della città per la costruzione di questa”.
5-I grandi concorsi nazionali e le ricostruzioni di Italo Gismondi.
Il lungo ciclo competitivo dei concorsi a partire dal 1924 fino alla vigilia della Seconda guerra mondiale fu specialmente nella Capitale, ma anche nel resto d’Italia, la diretta prosecuzione di quello iniziato negli anni successivi all’unificazione nazionale, quando si erano svolte le grandi competizioni per il monumento a Vittorio Emanuele II, per il palazzo di Giustizia e il palazzo del Parlamento Nazionale a Roma. I numerosissimi concorsi furono indetti sia dal Governatorato e dagli Enti per l’edilizia popolare ed economica, nella ricerca di soluzioni esemplari per il problema dell’abitazione, sia ,dopo il 1930, dal regime fascista che li scelse per la progettazione di importanti opere pubbliche come momento insieme di autorappresentazione nella città e della sua riqualificazione. I concorsi furono visti, secondo l’opinione dell’onorevole Alberto Calza Bini, come l’unica possibilità teorica di una più equa ripartizione degli incarichi pubblici tra i professionisti , specialmente i più giovani e più qualificati, e l’apparente tentativo teso ad annullare o per lo meno a ridurre le solite e sotterranee manovre clientelistiche controllate dalle pressioni politiche ed economiche. In sostanza il concorso lasciava vanificati molti dei problemi per la soluzione dei quali era stato bandito, perchè spesso le soluzioni proposte non venivano realizzate. “Allora si stilavano delle graduatorie di merito, si rimandavano volentieri i progetti ritenuti migliori ad una prova di “secondo grado”, e si finiva spesso per assegnare il lavoro ad un architetto che neppure aveva partecipato alla competizione, ma che, al momento delle decisioni, poteva vantare l’appoggio determinante di qualche influente politico.” 59 I primi episodi furono i concorsi banditi tra il 1924 e il 1925 a Bologna, Genova e Milano aventi come tema il Monumento ai Caduti. Nei quali gli architetti proposero , in modo più o meno elegante, quel eclettismo classicista tipico dell’epoca. Indubbiamente i concorsi degli anni tra le due guerre si svolsero quasi integralmente sotto l’influenza culturale dominate di Piacentini, che in quegli anni ottenne numerosissimi incarichi prestigiosi e utilizzò i concorsi di progettazione per mettere a punto una politica di equilibrio tra le diverse componenti culturali, basata sulla definizione progressiva di un cauto modernismo. Per la nostra analisi abbiamo scelto tra le numerose competizioni, quelle che meglio ci illustrano l’influenza dell’architettura romana sia aulica che dell’architettura minore. Il primo, del quale abbiamo già parlato, è quello bandito nel 1926 per il Quartiere dell’Artigianato a Roma. Questo concorso fu significativo specialmente nell’ambiente romano perché, attraverso la politica della giuria, fu tracciata una discriminante tra le correnti culturali presenti nella Capitale. Infatti con l’assegnazione del premio vincitore al progetto del gruppo Aschieri, chiaramente ispirato alle immagini della ricostruzione di Ostia Antica, fu fatta una scelta precisa nell’affermare la preferenza di uno stile, pur tradizionalista, comunque moderno perché derivante dalla secessione viennese, mettendo in crisi le correnti culturali attestate sul pittoresco in stile quattrocentesco e medioevaleggiante. Nello stesso anno fu indetto il concorso ad inviti per il Palazzo delle Corporazioni a Roma. Era questo il primo importante appuntamento con la realizzazione di un’opera architettonica che stava particolarmente a cuore al regime fascista perchè rappresentativa dell’ordinamento economico e sociale che intendeva darsi il fascismo. Pur non esistendo ancora le Corporazioni si richiedeva ad alcuni gruppi il progetto di un palazzo da costruire in Via Veneto; le soluzioni proposte furono in gran parte caratterizzate da un pesante impianto simbolico. Il progetto vincitore anche questa volta del gruppo Aschieri, caratterizzato dalle alte “torri” e dall’arcone centrale, usati per movimentare la compatta e monotona trama di facciata, pur basandosi ancora su schemi della tradizione ottocentesca, a nostro avviso, inizia ad intravedersi l’utilizzo di elementi classici ripresi dal repertorio monumentale della Roma Imperiale. Verrà però realizzata la soluzione proposta da Piacentini e Vaccaro. Infatti l’utilizzo del repertorio aulico dell’antica città si prestava dimensionalmente per l’intervento a scala pubblica, come si può vedere, nel 1927, nelle proposte per il concorso del Palazzo della Società delle Nazioni a Ginevra. Le proposte di Broggi-Vaccaro-Franzi (primo premio ex-equo), Piacentini-Rapisardi e Mazzani (menzione onorevole di seconda classe), Brasini, Limongelli, proprio per l’importanza della competizione, “ fanno ricorso ad un apparato aulico dimentico della storia specifica, della loro stessa tradizione: che è sì collegata al linguaggio colto e rappresentativo dell’ordine architettonico, ma anche alla dimensione civile dell’edilizia residenziale di Ostia Antica, della quale si fanno numerose ricostruzioni. 61 Questi progetti furono presentati dalla critica come “quanto di più serio e vivo si fa oggi in Italia nel campo dell’architettura poichè la tradizione non è ripudiata come in Germania nè malamente sfruttata come in Francia, ma ripresa nel suo spirito come fonte d’ispirazione come modo d’espressione dell’indole della nostra razza, la più architettonica ed equilibrata del mondo” 62 Contemporaneamente ai concorsi per edifici rappresentativi si indicevano competizioni per risolvere, nelle varie città italiane ma anche dell’Africa Orientale, 63 il problema dell’abitazione, spesso ricercando nei progetti di concorso soluzioni tipologiche da utilizzarsi a scala nazionale. In occasione del XII Congresso della Federazione Internazionale delle abitazioni e Piani Regolatori , l’ICP bandì un concorso per la progettazione di “casette modello” ( 1929 )da costruirsi alla Garbatella. 64 Dal concorso risultarono vincitori i progetti di Aschieri, Cancellotti, De Renzi, Marchi e Vietti, nei quali venne proposto un lessico moderno e una distribuzione molto più funzionale rispetto agli altri villini precedentemente costruiti. Liscie pareti intonacate e regolari, rivestimenti più pacati sostituivano le precedenti facciate pittoresche, e inoltre l’insieme del complesso venne organizzato con giardini e spazi aperti comuni e non più con orti privati. Questo concorso ebbe notevole risonanza alla quale contribuì lo stesso Calza confrontando le nuove “casette modello” con le “casette tipo” ostiensi. Infatti l’impianto distributivo per l’archeologo era assimilabile a quello delle antiche case e consisteva in corpi di abitazioni generalmente a più appartamenti dove ogni alloggio possedeva il proprio ingresso indipendente e si svolgeva in verticale su due piani. Nell’intenzione dei progettisti non c’era l’idea di riferirsi alle tipologie del passato, ma ancora una volta problematiche simili diedero risultati simili. Nel 1930 fu indetto un concorso nazionale per il progetto della nuova Palazzata di Messina andata distrutta nel 1908 con il terremoto. Una proposta era già stata elaborata, su richiesta del Podestà di Messina, dagli architetti siciliani Ernesto e Gaetano Rapisardi. Il progetto elaborato, pur essendo stato riconosciuto di “pieno gradimento” dalla Commissione edilizia del Comune, si preferì non realizzarlo, probabilmente per allontanare il sospetto di maneggi clientelistici in sede locale e rimettere tutto in discussione indicendo una pubblica gara alla quale parteciparono 29 concorrenti. La Commissione giudicatrice composta da Ugo Ojetti, Roberto Papini, l’architetto Francesco Fichera e l’ingegnere Edmondo Del Bufalo, selezionò solo sette progetti ai quali sarebbe stato dato il premio. Infatti il bando di concorso presentava delle clausole abbastanza restrittive tra cui il mantenimento dell’area in isolati , come dalla situazione precedente al terremoto; lasciava “ ampia libertà di creazione artistica, richiedendo allo stesso tempo una “ inquadratura architettonica ispirata ad un unico stile.” In pratica queste ed altre limitazioni finirono per condizionare i progetti costringendoli ad esprimersi mediante un’esclusiva esercitazione formale di facciata. Al concorso parteciparono tra i tanti anche un gruppo di giovani architetti razionalisti, composto da Adalberto Libera, Mario Ridolfi e Mario Fagiolo, il cui progetto fu comunque apprezzato dalla giuria che lo fece rientrare nel gruppo dei premiati. Il progetto di aggettivazione novecentesca più che razionale, si distinse indubbiamente per l’originale veste grafica di presentazione. Il primo premio fu attribuito al gruppo di architetti siciliani firmato da Giuseppe Samonà, Camillo Autore, Raffaele Leone e Guido Viola per aver prodotto, come dice la relazione della giuria “ con lo spirito di sobria e ritmica monumentalità un elaborato informato ad un felice fusione di modernità di spirito con italianità tradizionale di forme”. Il progetto corrispondeva ai gusti classicheggianti, travestiti da modernismo che tanto piacevano alla pubblica opinione dell’epoca. Ma chi ci interessa ricordare è il progetto che ottenne una segnalazione particolare, realizzato da Giuseppe Morletta e Bruno La Padula, perchè come la commissione stessa scrisse :” (..) la lodevole spregiudicatezza con cui il tema è stato affrontato e le studiate, ingegnose soluzioni planimetriche dei singoli edifici non compensassero la mancanza di quel tono di solennità che nel tema della Palazzata si doveva ottenere. E se è vero che in questo secondo progetto esistono richiami felici al carattere delle antiche abitazioni di Ostia e di Pompei con forme chiare e linde, si che non del tutto vi si astrae dalla tradizione, è altresì vero che il tono generale del progetto è più adatto per una città balneare che per il prospetto di una città gloriosa e del maggiore porto commerciale della Sicilia.” 64 I risultati dei concorsi, noti in tutta la nazione, erano un punto di riferimento molto importante per gli architetti dell’epoca, in quanto tramite essi venivano a conoscenza delle tendenze dell’ambiente culturale e architettonico del tempo. Addirittura nei bandi di concorso spesso si suggeriva ( e quindi imposto) di rifarsi alle imitazioni stilistiche o ai rifacimenti pseudo-archeologici. Un altro concorso al quale parteciparono molti degli esponenti dell’ambiente architettonico romano fu bandito nel 1932 per case popolari al Ponte di Casanova a Napoli. Vi parteciparono diciannove concorrenti tra cui Innocenzo Sabbatini, Luigi Moretti in collaborazione con gli arch. Lissani e Poggi e Mario De Renzi con Marcello Canino i quali vinsero il primo premio. La Commissione giudicatrice, composta da Calza Bini, Giovannoni e dall’ing. Primicerio dell’ ICP di Napoli, così giudicò il progetto vincitore: “(...) che si stacca dagli altri per la bontà della soluzione planimetrica d’insieme e per le parziali distribuzioni degli alloggi (...) ed anche per la semplice ma giusta concezione architettonica.” 65 In questo progetto De Renzi ripropose tematiche già utilizzate nel suo repertorio architettonico come ad esempio l’apertura del grande arcone centrale proposto nel già noto progetto per il concorso del Palazzo delle Corporazioni. Il progetto di Luigi Moretti è per noi spunto di riflessione sui giovani architetti romani, i quali formatisi in un ambiente tradizionale e classicista, esprimevano nelle loro prime opere tutta la lezione appresa dall’antica Roma. Infatti nel progetto per le case popolari a Napoli l’impalcato architettonico delle facciate ripropone chiaramente elementi dell’insula ostiense come le logge , le aperture ad arco, il portale segnato dalla trabeazione e il timpano di coronamento, tutti elementi che furono visti ad Ostia antica e nelle ricostruzioni di Italo Gismondi, ma anche che furono ripresi dagli esempi già realizzati, dell’architettura di Innocenzo Sabbatini a Roma. Concludiamo questa breve analisi con il concorso per la Piazza Imperiale da realizzarsi per l’Esposizione Universale del 1942. I progetti presentati per il concorso, indetto nel 1938, si inseriscono chiaramente in quelle direttive che Piacentini diede all’inizio del programma per l’E42, in cui affermava che l’architettura degli edifici dell’Esposizione doveva risultare adeguata al “taglio” e al “respiro” di una città “dove nel passato sono stati innalzati gruppi edilizi come i Fori e le Terme, come le Basiliche” e che tale architettura procedeva ormai verso una espressione spontanea e vigorosa di una profonda sentita e orgogliosa italianità”.66 Il bando di concorso specificò, inoltre, come le architetture dovessero ispirarsi “ al sentimento classico e monumentale pur nelle più moderne e funzionali forme”. 67 I partecipanti al concorso furono 25 e il premio fu dato ex-aequo a Luigi Moretti e al gruppo formato da Foriello, Muratori e Quaroni; ai vincitori fu assegnato successivamente la progettazione dei vari edifici che componevano la piazza. L’impianto urbanistico-architettonico della piazza , specialmente nel progetto di Moretti, rispecchia fedelmente le direttive di Piacentini, perchè ripropone una parte del Foro della città di Ostia Antica. Se noi confrontiamo il tratto nord del Cardo Maximum delimitato dagli edifici porticati, il cui sfondo è chiuso dal lato posteriore del Capitolium, con il progetto della Piazza Imperiale di Luigi Moretti, anche esso caratterizzato dagli edifici porticati ( i due Musei delle Arti) ai lati e da un edificio più alto al centro ( il cinema-teatro), ritroviamo riproposta pur con un “neoclassicismo maccheronico” e con proporzioni monumentali di altra scala, quella spazialità antica di cui Ostia ne era un esempio da riproporre in una Esposizione che avrebbe dovuto rappresentare la rinata potenza imperiale.
6-L’ambiente romano e Ostia antica
“Al barocchetto della città giardino Aniene a Monte Sacro e della Garbatella si andarono man mano sostituendo altre valenze linguistiche legate più all’idea della romanità che allo spirito un poco paesano dei romanisti, anche sulla scorta delle ricostruzioni compiute da Italo Gismondi dell’architettura di Ostia Antica e pubblicata da Architettura e Arti Decorative nel 1923”. Con queste parole Giorgio Ciucci introduce nel suo testo gli anni nei quali fu evidente il ritorno al passato della Roma Imperiale. Nel periodo tra le due guerre a Roma e anche nel resto d’Italia, ci furono delle personalità dominanti che influenzarono il dibattito culturale del tempo; tra le tante figure noi analizzeremo quelle che meglio caratterizzarono, con la loro opera, quel “filone” architettonico che aderì alla romanità, di queste molte le abbiamo già incontrate nel nostro percorso. L’ambiente romano, diversamente dalle altre città, espresse grandi contraddizioni, dovute “ vuoi alla presenza di una committenza spesso ruffiana e speculatrice che ha condizionato con la propria miopia culturale delle autentiche espressioni architettoniche; vuoi alla presenza storica nella città, condannata pertanto a vivere con il passato e a dialogare con forme morte alle quali solo con un’ambigua operazione di accademia era possibile dare nuove virtualità”. Già nei progetti di Alessandro Limongelli, come è stato accennato in precedenza, si avvertì l’aspirazione ad una immagine classica della sua opera espressa sia nelle fantastiche ricostruzioni, tra le quali lo studio del grattacielo italiano del 1927 pensato come la sovrapposizione, quasi all’infinito, della casa romana, e la ricostruzione fantastica del grandioso porto di Ostia (1928), sia successivamente nel progetto del Banco di Roma a Tripoli, del 1931, dove ripropose, in stile orientaleggiante, la composizione architettonica dell’insula attraverso la facciata porticata.( fig. 244,245,246) Anche nell’opera di Mario De Renzi furono interpretati in chiave moderna gli elementi del passato. Le radici del lavoro di De Renzi affondano nella tradizione laziale e romana, tradizione nella quale cercò di ritrovare una propria identità culturale. L’adesione ai valori della memoria e al patrimonio delle culture locali significa per De Renzi, sopratutto nell’opera degli anni venti e trenta, accostarsi naturalmente e direttamente ai problemi dell’architettura e cercare di risolverli appropiandosi di un linguaggio comune e di immagini ricorrenti nella memoria collettiva. Esempio significativo è l’edificio di via Andrea Doria a Roma, progettato con Luigi Ciarrocchi e costruito fra il 1927 e il 1930, in seguito all’elaborazione di svariate versioni. L’esigenza di interiorizzazione della forma, la dirompente invenzione tipologica (nuova per Roma), l’impiego del basamento continuo al piano terra, l’ingenua fiducia nella nuova tecnologia, l’uso di temi di derivazione classica disinvoltamente coniugati con un lessico di sapore futurista, la palese reinterpretazione dell’insula romana nell’impaginato di facciata, la bicromia dei materiali utilizzati, sono tutti elementi che qui compendiati, troveranno percorsi autonomi nei progetti successivi, con ricchi e inusitati svolgimenti in tutto il suo lavoro futuro, anche del dopoguerra. Nonostante le complesse traversie burocratiche, l’edificio riscosse un certo successo, tanto che Plinio Marconi lo inserì tra le opere migliori da portare come esempio di “edilizia attuale” a roma. Senza dubbio il progetto di De Renzi divenne un modello di riferimento per la nuova generazione di architetti romani, perché momento di sintesi tra valori di memoria della casa romana ed elaborazione di idee innovative. In questi anni furono molte le opere di De Renzi che ripresero valenze formali del repertorio classico, di alcune abbiamo già detto nei capitoli precedenti, mentre ci sembra interessante analizzare il progetto che l’architetto fece per la sistemazione di un centro rurale alla Magliana (1937-39). L’occasione gli fu offerta da un industriale bolognese, ma a causa della guerra non verrà mai realizzato. Nel progetto la tradizione locale dei centri agrari della campagna romana, il recupero di memorie classiche e il rapporto con l’ambiente naturale e archeologico furono gli elementi essenziali sui quali realizzare una elevata qualità di vita. Questo progetto, e anche quello per il villaggio operaio di Narni ( 1942 ), ripresero elementi della tradizione romana, sia per quanto riguarda lo stile architettonico degli edifici, si veda ad esempio il porticato ad archi con il sovrastante loggiato negli edifici della piazza principale del progetto per Narni, sia per la riproposizione di alcuni spazi la cui atmosfera ed organizzazione volumetrica è riconducibile a quelle di una città mediterranea quale era Ostia antica. “( . . . ) De Renzi tende a rivalutare gli aspetti popolari e regionali dell’architettura italiana e a recuperare quella componente classica che ritrova una propria aderenza al linguaggio architettonico moderno attraverso l’estrema semplificazione degli elementi costitutivi della facciata. Il suo sforzo di assimilare e trasformare i valori mediterranei e i riferimenti popolari in un contesto moderno fa sì che il linguaggio razionalista divenga qui intuito e meditato, anzichè passivamente applicato”. Negli “anni del consenso” il rilancio alla romanità lo si legge soprattutto nelle grandiose opere fasciste che si rifacevano alla architettura aulica dell’età imperiale, anche in seguito ai primi risultati degli scavi archeologici iniziati per riportare alla luce i fori. Il regime cercava nella Roma augustea una sua identità culturale per questo il linguaggio architettonico che si sviluppò doveva essere in grado di rappresentare l’idea fascista. Marcello Piacentini, arbitro e gestore della cultura ed architettura dell’ambiente romano di quegli anni, fu uno dei maggiori sostenitori della nuova classicità adottata dal regime. In un articolo sulla rivista “Architettura”, intitolato Onore dell’architettura italiana, del 1941, scrisse: “Noi contiamo invece esempi già ammirevoli di quella architettura del popolo e per il popolo che il nostro ministro auspica ( . . . ) ed altri esempi già sufficientemente validi a rappresentare quell’architettura dello stato, che, pur essendo tutt’una di origine con l’altra, assume ampiezze ed espressioni sue speciali. Architetture che soddisfano le necessità e quelle che soddisfano la grandezza: ambedue architetture che nascono da una medesima anima, in un medesimo ambiente politico e sociale”. A commento del testo l’autore scelse numerose illustrazioni di progetti realizzati in tutta Italia, tra cui ci interessa segnalare un edificio d’abitazione costruito a Torino in seguito ad un concorso del 1937 dagli architetti Mario Passanti e Paolo Perona. Il bando di concorso, indetto dalla società Michelin Italia, richiedeva un insieme di alloggi con i servizi ausiliari. Il primo progetto presentato consisteva in un edificio rettangolare che si affacciava su una strada e su un giardino all’interno, con due corpi scala serviti da un porticato al piano terra e dai ballatoi ai pini superiori. Nell’edificio realizzato gli architetti dovettero rinunciare ai ballatoi e aggiungere altri due corpi scala. Il prospetto interno con il porticato e le logge ad archi ribassati e l’impianto distributivo richiamano alcuni elementi dell’insula, ma quello che ci preme mettere in evidenza è che questo edificio fu costruito in una città lontana dall’ambiente romano. Anche gli architetti Mario Paniconi e Giulio Pediconi, rappresentanti della generazione più giovane della scuola romana, cercarono negli anni trenta di conciliare fra il razionalismo e il monumentalismo della cultura ufficiale, con echi della metafisica del “Novecento”. tra il 1938 e il 1939 presentarono un progetto di case di abitazione per l’Istituto Nazionale delle Assicurazioni ( INA ), a littoria nuovo centro urbano voluto dal Duce in seguito alla bonifica dell’agro pontino. Il progetto consisteva in quattro edifici prismatici, a tre e quattro piani, collegati tra di loro da un sistema di passaggi porticati tra i giardini al pianoterra. L’uso dei laterizi, il sottile cornicione raccordato a sguscio nei blocchi più bassi, le bucature continue con l’architrave ad arco ribassato, sono tutti elementi che fanno di questo progetto un diretto erede dell’insula ostiense. I due architetti, pur avendo dovuto utilizzare per forza un linguaggio tradizionale trassero “ l’occasione per orchestrare un sistema architettonico-costruttivo che fa della compattezza volumetrica, coniugata all’elemento quasi decorativo della piattabanda continua delle finestre, la cifra capace di memorizzarsi e farsi valore urbano.” Un prolungamento di questa ricerca lo troveremo nello “ Studio per un Lotto Misto” presentato nel 1942 da Paniconi e Pediconi sulla rivista “Architettura”. Progettato sulla scia del dibattito aperto da Michelucci a proposito della specializzazione delle zone residenziali, il progetto si ispirava al grande affresco del Buon Governo di Ambrogio Lorenzetti. Paniconi e Pediconi costruirono un’immagine urbana in cui la “casa signorile” e la “casa popolare” convivevano in uno stesso lotto, dove erano previsti anche negozi e magazzini. Questa proposta reinterpreta l’organizzazione dell’insula ostiense nella quale vivevano componenti di diverse classi sociali. Inoltre i criteri architettonici del lotto, un’ampia corte centrale la quale è accessibile attraverso l’androne degli edifici signorili ed è contornata da corpi di fabbrica più bassi ai quali sono attigui anche orti e giardini, ci fanno pensare ad “organismi architettonici tradizionali”, come scrivevano gli stessi architetti e in particolare al grande isolato ostiense detto delle Case Giardino. Il lavoro piacque a Piacentini, che lo fece pubblicare su “Architettura”, perchè riconosceva in esso la propria tesi, espressa fin dal 1921 nella quale sosteneva che si dovesse superare la divisione dei quartieri residenziali per ceti e tipologie separati. Anche Giò Ponti rimase colpito dal progetto facendolo a sua volta pubblicare sulla rivista “Stile”; egli oltre ad apprezzare “ fra tante parole un esempio concreto”, ritenne assai valida la capacità dei due architetti di coniugare antichi ricordi e attualissime questioni. “Dopo l’esperienza delle Case di Littoria , Paniconi e Pediconi si spingono infatti più lontano. Quell’ispirarsi al quadro di Ambrogio Lorenzetti ha un duplice significato; quello di recuperare una sintesi della qualità urbana, che si è perduta nell’epoca dell’industrializzazione per il progressivo specializzarsi delle zone abitate, ma sopratutto quello di poter assumere dall’opera di un pittore, con le sue evidenti trasposizioni e trasfigurazioni formali, una metodologia di rifondazione del progetto.” Paniconi e Pediconi parteciparono ad alcuni concorsi per l’E42 ( Palazzo dei Congressi, la piazza Imperiale, il Museo delle Forze Armate) il cui esito, se pur lusinghiero, non fu quello vincitore.Gli fu allora assegnata la progettazione, insieme a Giovanni Muzio, della grande piazza d’accesso all’Esposizione.
L’ipotesi era quella che in un secondo tempo i due edifici, messi a disposizione durante l’Esposizione per le mostre, divenissero la sede dell’INA e dell ‘INFPS.Il progetto subì diverse varianti prima di giungere all’ultima versione realizzata. L’idea delle due esedre per la grande piazza la ebbe Muzio mentre ai due architetti toccò di sviluppare l’idea fino al dettaglio. ciò che ci interessa mettere in evidenza in questo progetto è che lo stesso Piacentini nel suo articolo “ Classicità dell’E42 ” inserì fra i riferimenti storici con cui confrontare le due esedre la pianta del complesso ostiense del Teatro con l’antistante piazzale delle Corporazioni. Ancora una volta testimonianze dell’antichità monumentale furono riutilizzate per dare nuovi significati all’intervento pubblico. Ludovico Quaroni, giovane emergente dell’architettura romana, partecipò anche lui ai grandi lavori per l’E42, aderendo insieme a Muratori e Fariella ad alcuni concorsi (Palazzo dei Ricevimenti, Palazzo dei Congressi, Piazza Imperiale). Anche loro come gran parte degli architetti giovani affrontarono il tema della classicità seguendo le direttive del tempo, anche se “la loro esperienza era tutta culturale, intelettualistica, letteraria o soltanto sentimentale e giungeva al neoclassicismo con l’intenzione di riannodare i fili di una tradizione sostanzialmente spezzata, sia dai compromessi della generazione precedente che dalla rivoluzione razionalista”. Figura formatasi nel periodo dell’affermazione razionalista sotto l’influsso del modernismo accademico di Del Debbio, dando l’attenzione ai valori ritmici ed armonici e accostandosi inevitabilmente all’architettura nordica, l’architettura di Quaroni in questa sua prima fase si sviluppò verso esiti di radicale semplificazione linguistica “attraverso l’esaltazione dell’astrattezza della forma si afferma quasi inevitabilmente un neoclassicismo, accettato per le sue possibilità di universalità”. Nel lavoro di Quaroni sono evidenti approcci differenti a secondo del tipo d’intervento che si andava formulando; questo come ben sappiamo fu il risultato del contesto storico in cui viveva. Quindi dai progetti monumentali per una architettura aulica e celebrativa del regime come quelli presentati per l’E42, l’architetto passava a progetti nei quali la ricerca formale era rivolta ad una adozione di forme ed elementi di linguaggio desunti da una tradizione popolare al fine di ricreare una spontaneità ed una immediatezza figurativa lontane ed opposte all’obbligata retorica degli edifici rappresentativi. Uno dei progetti che aderivano alla corrente dell’edilizia di abitazione è quello del palazzo di Piazza Istria a Roma, del 1938. Realizzato esclusivamente in muratura perchè la costruzione in cemento armato era stata tassativamente proibita, pur con un linguaggio moderno, non escludeva un uso rinnovato di metodi costruttivi e strumenti espressivi propri della tradizione minore e locale, come si può vedere nell’impaginazione delle facciate. Le botteghe del piano terra sono scandite da pilastri in pietra sormontati da un architrave ad arco ribassato in muratura ripetuto nelle finestre tripartite dei piani superiori come è visibile in quelle dell’insula delle Trifore ad Ostia antica. I diversi materiali furono utilizzati in modo corretto secondo i principi costruttivi e non decorativi come si usava fare di solito; il mattone per la muratura e la pietra da taglio per i punti di maggior tensione statica. Altra constatazione interessante è quella di notare che nello stesso anno lo studio Paniconi e Pediconi presentava il progetto di abitazioni per Littoria dove usarono analoghi elementi linguistici, derivanti dalle abitazione ostiensi, rielaborati nell’ambito dell’ internationale style. Architetto politicamente impegnato nell’area del consenso, Luigi Moretti realizzò moltissimi progetti. Tra il 1935-37 lavorò nel Foro Mussolini, sostituendosi nella gestione a Del Debbio, con il terzo piano urbanistico dell’area in cui l’architetto estendeva la zona d’intervento oltre il Ponte Milvio. Oltre al piano regolatore egli realizzò nel Foro una serie di progetti tra cui quello del Piazzale dell’Impero. Ideato da Moretti come asse-ingresso del Foro fu inserito tra la fontana della Sfera di Paniconi e Pediconi e l’Obelisco di Costantini. Lo scopo principale del progetto era di rivestire una funzione rappresentativa e commemorativa dei fasti del regime e dal punto di vista funzionale, offrire una sede sia per la sosta dei gerarchi che un luogo dove svolgere le sfilate. Lo spazio è caratterizzato dai 22 blocchi marmorei ortogonali all’asse longitudinale e scaglionati su due stilobati anche essi di marmo. Il progetto è stato inserito in questo scritto, tra i tanti che Moretti progettò, perchè rappresentativo di un concetto basilare e cioè che nella cultura romana, come abbiamo ampiamente dimostrato, l’influenza della vicina Ostia si era “insinuata” lentamente, ma profondamente, grazie agli scritti di Calza , alle ricostruzioni di Gismondi e alla diretta conoscenza dei reperti archeologici. Infatti nel momento in cui a Roma si dovevano progettare nuove spazialità architettoniche ritornavano spesso alla mente le suggestioni di antiche memorie, come si può facilmente verificare nel Piazzale dell’Impero che ci riconduce con la ritmica scansione dei blocchi marmorei a quell’affascinante luogo archeologico del Piazzale delle Corporazioni di Ostia antica, dove non solo la scansione dei bassi muri messi alla luce, ma anche i bellissimi mosaici bianchi e neri furono per Moretti un irresistibile richiamo per il suo progetto. Quello che ci sembra incredibile è che ciò che suggestionò l’architetto non fu l’idea di come poteva essere stato nell’antichità il Piazzale, ma la spazialità definita dal “rudere” appena scoperto. L’influenza dell’insula sul dibattito culturale ed architettonico fu soprattutto, un fenomeno circoscritto nell’area romana, anche se ci furono nel resto d’Italia architetti, come abbiamo già visto, che rimasero sicuramente impressionati dalle pubblicazioni su Ostia antica. Uno di questi fu Giovanni Muzio, maggiore esponente del “Novecento” architettonico a Milano, il movimento che subito dopo la prima guerra mondiale richiamò all’ordine nel nome della tradizione classica e del rifiuto dell’internazionalismo. La serie di bellissime case d’abitazione che Muzio costruì a Milano negli anni trenta dimostrano come l’obbiettivo dell’architetto fosse di realizzare una sintesi tra passato e presente. La casa di via Giurati (1930), proporzionata con decisione e leggerezza, ripropone in modo più misurato quell’atteggiamento di libero recupero del passato già sperimentato nella Ca’ Brutta del 1922.“ Il risultato è una saporita archeologia d’invenzione a mezza strada tra la casa da boulevard parigino ed il revival pompeiano ( . . . )” Le opere di questi anni risentono dell’articolata ricerca di Muzio “ oscillante tra l’adesione ad un classicismo sentito e rivissuto come proprio e la reinvenzione di una architettura in cui il reimpiego di spolium di forme antiche si mescola sempre più con l’uso di quelle forme nuove che l’architettura italiana andava, non senza contrasti, assumendo dalle ricerche straniere” Anche l’architetto Giancarlo Maroni a Riva del Garda rielaborò nel suo progetto dell’Albergo del Sole ( 1922 ) il repertorio classico fornito dall’insula ostiense, rielaborato nella facciata rivolta verso il lago. In conclusione la divulgazione della scoperta archeologica ad Ostia antica rappresentò, nel periodo tra le due guerre, una delle numerose componenti possibili per la formazione della tanto ricercata e studiata cultura nazionale. La quale, se gli avvenimenti storici non avessero stravolto gli eventi, potrebbe essere ancora oggi memoria importante nella cultura contemporanea come sostiene lo storico Giulio Carlo Argan: “la città ha dunque una sua dimensione temporale: il tempo delle città, misurabile con il ritmo di attività che muovono da una intenzionalità verso una finalità ben precisa, è quello che chiamano il tempo storico e che implica, con l’esperienza meditata del passato, la progettazione del prossimo futuro.”
7- L’immagine romana, italica e mediterranea dell’architettura d’oltremare.
In questo breve paragrafo andremo ad affrontare la vasta ed articolata parentesi del colonialismo italiano91 iniziata già alla fine dell’800 ma fortemente sviluppatasi negli anni di politica imperialista del regime fascista. I tecnici che si impegnarono nell’opera di colonizzazione sul fronte urbanistico ed architettonico, i due aspetti più appariscenti che rientravano nei programmi di conquista e miglioramento dei nuovi territori, furono assai numerosi e della più varia provenienza dai funzionari del Genio civile, ai tecnici dei lavori pubblici, agli ingegneri di ampia cultura tecnica e formale, agli architetti tra cui alcune figure di primo piano dell’architettura di regime negli anni trenta. Inoltre in questa parentesi ci occuperemo solo di alcuni progetti che ci illustrano meglio quale fu l’approccio con cui si intervenne nelle colonie italiane, ma soprattutto di quei progetti dove è evidente il carattere “romano” riconducibile tra l’altro all’influenza degli scavi di Ostia antica. Si può comunque affermare che le scelte formali, l’uso di linguaggi opportunamente messi a punto per le varie occasioni, la ricerca di un carattere specifico locale, e alcune volte perfino una certa volontà di aderenza allo spirito del luogo, fecero parte d’intenti che inseguirono significati e valori di una architettura che doveva essere comunque italica, mediterranea, classica, quando non imperiale e autarchica allo stesso tempo. Nelle colonie italiane si tese soprattutto ad affermare uno stile originale, rispetto al contesto in cui si inseriva, cercando così di organizzare un paesaggio il più familiare possibile agli italiani, ovviamente in termini diversi a seconda delle aree in cui si esercitò l’influenza italiana. La Libia 92 divenne da subito, con la sua cultura arabo-ottomana assai evidente sia nell’architettura che nelle istituzioni, “un interlocutore forte capace di ipotecare lo sviluppo architettonico per oltre un trentennio”. 93 Infatti l’ambiente costruito della città islamica, Tripoli prima fra tutte, fu ritenuto un entità autonoma degna di considerazione, per cui molti architetti che vi operarono diedero non poca importanza ai valori ambientali dell’architettura libica. “Possiamo dire che , malgrado tutto, la città europea, almeno in questo caso, non intende entrare in opposizione a quella araba, ma prova a configurarsi come una continuazione evolutiva che si materializza attraverso una architettura importata e sulla quale la cultura locale innesta motivi a volte di grande originalità”.94 Man mano che le conquiste coloniali si allontanavano da questi luoghi fortemente connotati, il carattere italico dell’architettura dominante assumerà aspetti più precisi favorito dall’ assenza ( così si pensava allora ) in Eritrea ed in Etiopia 95 di veri e propri insediamenti urbani con forti caratteristiche autoctone. L’intervento architettonico sia nella Libia che in questi ultimi due paesi fu comunemente mirato ad aspetti di monumentalità, soprattutto nel periodo del fascismo, perché orientato a finalità di rappresentazione del potere, garantendo, attraverso la continuità di segni e di forme, la riconoscibilità delle nuove architetture e delle città. Passiamo adesso ad analizzare il contesto urbano in cui si inserirono i progetti ( realizzati e non ) nei quali è più evidente il riferimento all’architettura ostiense. Tripoli 96 interessò molto il mondo accademico italiano fin dai tempi della sua conquista (1901), in quanto la Libia veniva considerata una specie di continuazione oltremare del territorio italiano. Inoltre anche le campagne archeologiche di Sabratha 97, Leptis Magna 98 e Cirene 99, che portarono alla luce gli imponenti complessi architettonici delle terme e dei teatri, ebbero molta risonanza su l’opinione pubblica nazionale ed internazionale. Tanto che nella grande esposizione coloniale di parigi, del 1931, l’Italia fu rappresentata da Armando Brasini 100 con un padiglione che proponeva la ricostruzione in piccolo della basilica di Settimio Severo a Leptis Magna. Lo stesso Italo Gismondi lavorò in Libia, a Cirene, nella campagna di scavo del 1929, durante la quale fu esplorata tutta la zona immediatamente ad est e a sud dei propilei, dove venne scoperto lo Strategheion, un edificio votivo rettangolare del IV secolo a. C.. La sua ricostruzione fu effettuata dall’architetto Gismondi con un paziente lavoro di anastilosi, e, terminata nel 1931, rimane ancora oggi uno dei restauri più celebri eseguiti a Cirene 101. Quindi la tesi della “romanità” della Libia, giustificazione storica del dominio italiano su quelle terre, era ben supportata da tali avvenimenti e dalla certezza che il linguaggio classico fosse l’unico in grado di riaffermare il senso collettivo e il “significato che la tradizione affida al monumento”. 102 Le tre figure più importanti nel panorama architettonico di Tripoli furono Alberto Alpago novello 103, Ottavio Cabiati 104 e Guido Ferrazza 105. I tre architetti, di cui i primi due avevano il loro studio a Milano ai quali si era associato il trentino Ferrazza, furono attivi a Tripoli e a Bengasi dal 1927 ( anno in cui si occuparono dell’aggiornamento del piano regolatore di Tripoli ), dove ebbero un ruolo molto importante come autori di alcune delle maggiori opere pubbliche. Pur provenendo dall’ambito del gruppo “Novecento” milanese gli interventi dei tre architetti si inserirono nel più ampio dibattito sull’architettura coloniale promossa dal regime. Così sulla rivista “Dedalo” fu chiaramente descritto il loro lavoro. “che pur apparteneva alla più franca e sana modernità ( . . . ) ha avuto la ventura di ( . . . ) gettare molte fondamenta di una recente edilizia coloniale ( . . . ) architettura soprattutto mediterranea, fondamentalmente classica e ragionata ( . . .)”, pur essendo tali opere assimilabili con quelle “che si vanno facendo da secoli nel mezzogiorno d’Italia ( . . . ) senza l’intervento di alcun architetto, da Capri alle Puglie, nelle isole del classico mare”.106 Più interessante per il nostro studio fu la figura di Alessandro Limongelli 107 predecessore dei tre architetti sul suolo libico. poco prima del 1927 fu mandato in Libia dall’ufficio del Governatorato, dove lavorava, per seguire la realizzazione del Padiglione Roma alla fiera di Tripoli. L’esposizione doveva affermare la continuità tra Roma e le sue colonie attraverso temi e forme di architettura romana. A Limongelli gli fu data la progettazione (1928) dell’arco di trionfo per l’ingresso del re e della regina a Tripoli. nel 1929 era diventato consulente per l’architettura del Municipio di Tripoli e la sua forte personalità diede origine ad alcuni progetti tra cui l’albergo di Cirene (1930 realizzato solo nel 1932), la sede del Banco di Sicilia a Tripoli (1930), diverse proposte per la sistemazione della piazza Italia (1931), ed infine, nel 1931, poco prima di morire, la nuova sede del Banco di Roma poi completata da Alpago, Cambiati e Ferrazza con poche varianti. Le sue opere furono decisamente classiche e mediterranee, che reinterpretavano la romanità anche attraverso la visione che ne dava l’architettura locale. Nel progetto per il Banco di Roma Limongelli utilizzò un classicismo fortemente semplificato e dimensionalmente contratto rispetto alle sue ben note ricostruzioni fantastiche, in cui era leggibile nella sovrapposizione del porticato ad archi con le logge il motivo ostiense di alcune insulae, con l’aggiunta di spunti esotici che arricchivano lo stile senza snaturarlo. I giovani architetti, a differenza dei precedenti più decisi nei loro intenti, si dimostrarono abbastanza insicuri nelle loro proposte per l’architettura coloniale, come emerge dalla varietà di atteggiamento dei partecipanti al concorso per la sistemazione della piazza della cattedrale a Tripoli 108, indetto nel 1930. Al concorso parteciparono molti concorrenti infatti la giuria ebbe forti dubbi nel selezionare il materiale proposto e molti furono scartati o perché troppo forte era la loro adesione stilistica ai tipi di casa mediterranea, oppure, all’opposto, perché troppo grande era l’adesione agli stili classici monumentali. Quattro furono, in fine, i progetti selezionati e primo tra tutti fu scelto quello contrassegnato dal motto “Pentagono” redatto dall’ingegnere Natale Morandi di Milano con la collaborazione degli architetti Lombardi, Cosmacini, Dal Corno, Cavallini, Alziati. Agli altri progetti presentati da Vittorio Morpurgo, Adalberto Libera, Pietro Lombardi gli fu dato il secondo premio ex aequo. Quello presentato da Libera fu particolarmente apprezzato per il suo schietto carattere moderno pur con degli evidenti richiami all’architettura mediterranea 109 Il giudizio assai positivo che diede la commissione giudicatrice ma il conseguente scarto come possibile progetto vincitore rivela, anche qui nelle colonie, il dualismo in cui la cultura si trovava. Infatti fu apprezzato il progetto più vicino alla tradizione, classico e monumentale, più attento all’aspetto rappresentativo della nuova architettura coloniale. il progetto che ci sembra più interessante per la nostra analisi è proprio quello vincitore, del gruppo Morandi-Lombardi, che consisteva in una serie di edifici prospicienti la piazza aventi un porticato ininterrotto. Nella composizione delle facciate degli edifici si può rileggere quella delle insulae, anche se in questo caso il porticato del piano terra, dove erano previste delle botteghe, ha le campate segnate da arcate giganti che inglobavano alcuni piani superiori. Solo al termine di questa sequenza era stata posta una loggia chiusa da archi più piccoli. Il tema del porticato era comunque ricorrente in quasi tutti i progetti presentati ma solo in quest’ultimo è leggibile la rilettura dell’abitato di Ostia antica come importante esempio di città mediterranea. Infatti anche nella relazione della commissione giudicatrice, composta da Parimbeni, Del Debbio, Fasolo, Oppo, il progetto “Pentagono” fu definito “puro nella derivazione italica”. L’architettura mediterranea aveva significato, fra il 1930 e il 1934, anni di più intenso dibattito sul tema, il ritorno all’eterno spirito latino , lo slittamento da un rapporto inteso come ancora subordinato alla cultura europea ad un ruolo di guida nel mediterraneo, e di influenza sull’architettura moderna. Negli anni successivi, al mito della mediterraneità si sovrappone il concetto più reale di moderno, alle teorizzazioni sulla razionalità il valore pratico del funzionalismo, a uno stato nazionale un impero”. 110 L’architettura coloniale divenne così decisa affermazione dell’intervento statale con l’imposizione di un linguaggio moderno e tradizionale allo stesso tempo, per eliminare a tutti i costi l’immagine di “inciviltà” dei territori conquistati. Ciò si attuerà prevalentemente con l’urbanistica più che con l’architettura per dare maggiore espressione del potere fascista.
NOTE CAPITOLO IV
1Si veda per la descrizione della domus la nota n. 3 del capitolo V.
2Per un maggiore approfondimento dell’età imperiale ad Ostia Antica si veda :
G. Becatti, Case Ostiensi del tardo impero, in “Bollettino d’Arte” ,XXXIII, Roma, 1948
A. Boethius, Appunti sul carattere nazionale e sull’importanza dell’architettura domestica in Roma Imperiale, scritti in onore di B. Nogara, Roma, 1937
G. Lugli e G. Filibeck, Il Porto imperiale di Roma e l’Agro Portuense, Roma , 1935
E. Parcker, The insulae of Imperial Ostia, in “Memory of the American Academy in Rome, XXXI, 1971
3G. Calza, La preminenza dell’insula nell’edilizia romana, in ” Monumenti Antichi della Reale Accademia dei Lincei”, vol. XXIII, Roma, 1915
4Ibidem.Calza spiegò il motivo per cui la domus non poteva essere secondo lui l’unica abitazione esistente nel mondo romano:”La caratteristica sostanziale della domus italica quale viene rilevata da Vitruvio e da Pompei è data dalla presenza e dalla funzione dell’atrio. Il quale domina tanto radicalmente l’intero organismo della abitazione, che ne traccia e ne fissa , da solo, lo sviluppo e l’evoluzione. Le varie funzioni assunte dall’atrio- illuminazione e distribuzione di ambienti- permettono alla domus italica soltanto uno sviluppo orizzontale e precludono, non dandone il bisogno , la formazione delle facciate. D’altro canto, la presenza dell’atrio, avendo questo il predominio sulle altre parti, toglie all’abitazione l’equivalenza dei vari ambienti che costituisce il valore di ogni abitazione e che debba adattarsi ad ogni ceto; e di conseguenza la rende un organismo difficilmente frazionabile, e completo soltanto quando lo si riduca al pianterreno.(...)la più comune abitazione romana ( cioè quella adatta ad ogni classe di una numerosa cittadinanza), già prima dell’Impero, e più diffusamente dopo, si presenta con un solo tipo totalmente opposto alla domus pompeiana. Essa ha una origine e uno sviluppo del tutto indipendenti dalla domus, la quale non essendo riuscita ad assimilare stabilmente alcuni elementi del tipo opposto, ma riconoscendo la maggiore praticità di questo, lo ha adattato totalmente mediante la sparizione dell’atrio e di tutte le parti connesse; la domus ad atrio e peristilio si è mantenuta soltanto per abitazioni molto signorili e quindi in pochi esemplari. “
5G. Calza , Le origini latine dell’abitazione moderna, in “ Architettura ed Arti Decorative “, fascicoli I e II, 1923
6Ibidem. fasc. I pag. 16.
7Ibidem, fasc II pag. 57
8 G. Calza, La casa romana , in “ Capitolium “, n. 12 , 1929 , pp. 634-641
9C. Buttafava , Elementi architettonici ostiensi , Milano , 1963; P. Chidini , Caratteri distributivi degli antichi edifici , Milano , 1958 ;J.E. Packer , The insulae of imperial Ostia , in “Memoirs of the American Academy in Rome” , XXXI , Roma , 1971 ;F. Pasini , Ostia Antica.Insulae e classi sociali.I e II secolo dell’Impero , Roma , 1978 ;F. Pasini , L’abitazione collettiva borghese nell’Impero Romano: l’esempio di Ostia , in “ Trimestre” , n. 3-4 , 1975 ;
C. Pavolini , La vita quotidiana ad Ostia , Roma , 1986 ;H. Schad , Ostia , Brema , 1957
10E’ molto importante per il nostro studio aver costatato che già in questi anni iniziò la divulgazione della nuova scoperta e non, come molti hanno scritto, negli anni ‘20. Questo concetto è basilare per farci comprendere meglio molte figure di architetti dell’ambiente romano i quali furono influenzati già nell’età della loro formazione culturale dall’immagine della casa ostiense.
11Cfr. nota 3.
12G. Calza , Le case d’affitto in Roma antica , in “ Nuova Antologia “ , fasc. 1064 , maggio 1916 , pagg. 151-165
13G. Calza , L’importanza storico-archeologica della resurrezione di Ostia , in “ Atene e Roma “, ottobre -dicembre 1922, pagg. 230
14Cfr. nota n. 5
15Cfr. nota n. 8
16Cfr. nota n. 3
17Ibidem
18Cfr. nota n. 5
19G. Calza , Gli scavi di Ostia per l’Esposizione Universale di Roma , in “ Sapere “, XIX , ottobre 1941, pagg. 179-180
20G. Calza , Le case popolari dell’Urbe , in “ Il Giornale d’Italia “, 21 aprile 1932, pag. 4
L’articolo di Calza è inserito in una pagina del giornale totalmente dedicata alla romanità, con il titolo “ La potenza imperiale di Roma e le grandi opere pubbliche dell’età classica”. Gli articoli della stessa pagina sono di Corrado Ricci e Giuseppe Lugli. E’ importante mettere in evidenza come grazie ad un articolo dedicato all’Urbe, Calza abbia potuto illustrare e divulgare la nuova tipologia di casa, perché era stata ormai provata la sua presenza anche a Roma.
21Il concorso fu gestito in prima persona dall’Onorevole Alberto Calza Bini il presidente dell’Istituto per le Case Popolari Segretario del Sindacato Fascista degli Architetti dal 1927, il quale vedeva nell’istituzione del concorso l’unica possibilità teorica di una più equa ripartizione degli incarichi pubblici tra i professionisti specialmente più giovani e più qualificati. L’Istituto fu in quegli anni l’interprete ufficiale della cultura architettonica romana anche se molta influenza l’ebbe la forte personalità di Marcello Piacentini, sia attraverso la rivista Architettura e Arti Decorative sia attraverso i concorsi, che lui utilizzò per mettere a punto una politica di equilibrio tra le diverse componenti culturali del dibattito architettonico di quegli anni.
22Pietro Aschieri ( Roma 1889 - 1952) architetto, urbanista e scenografo studiò disegno sotto la guida del padre scultore e si laureò in ingegneria civile nel 1913 a Roma. Ebbe come maestri Calderini, Giovannoni e Milani. Fu una delle personalità più complesse e rappresentative della architettura accademica del primo modernismo romano, muovendosi con disinvoltura a contatto con i vari ambiti artistici: la pittura e la scultura, come allestitore di mostre; il teatro il cinema e la musica come registra e scenografo; il design in episodiche collaborazioni con l’industria. Inoltre nelle sue architetture ricercò positivamente il confronto con la cultura italiana ed europea, per spezzare l’isolamento culturale dell’ambiente romano. Per maggiore approfondimento si veda il catalogo della mostra : AA.VV. ,Pietro Aschieri architetto , Accademia Naz. di San Luca, Roma , 1977.
23I risultati del concorso furono pubblicati sulle riviste : “Architettura e Arti Decorative”, fascicolo II , ottobre 1926 con un articolo di G. Papini e su “Capitolium” ,n. 10 del 1927 dove l’autore dell’articolo G. Zucca , riportò il giudizio dato dalla giuria sui progetti presentati. Inoltre sul quotidiano “ Giornale d’Italia” del 27 luglio 1927 fu data notizia della partecipazione, insieme al “Gruppo 7 ” ed all’Istituto per le Case Popolari, all’Esposizione Internazionale del Werkbund tedesco diretto da Mies Van der Rohe, del progetto per il concorso per il quartiere dell’Artigianato.
24Fondamentale nel progetto fu l‘apporto dato dalla mano di aschieri che mediò le varie personalità dei giovani architetti componenti l’omonimo gruppo.
25Le associazioni di mestiere dell’età imperiale ad Ostia erano in genere indicate con il termine di corpus e avevano la loro sede nelle schola che variavano per tipologia, complessità ed eleganza a seconda della floridezza e dell’importanza del collegio a cui appartenevano. Questi organismi sono stati spesso indicati, in età moderna, come “corporazioni”. Il vocabolo, che ha goduto di particolare favore nel periodo fascista, in realtà non rispecchia esattamente la natura e le funzioni degli antichi corpora . Ad esempio essi non sembrano aver svolto, come invece le corporazioni artigiane delle città medievali, compiti di supervisione e di disciplina del tirocinio sostenuto dagli apprendisti delle diverse arti. Ancor più forviante sarebbe volerli vedere come una sorte di sindacato, con finalità rivendicative nei confronti dei datori di lavoro. Per un maggiore approfondimento si veda: A.P. Torri , Le corporazioni ostiensi , in”L’Urbe” , settembre 1938, pp. 1-8 ; G. Clemente , Il patronato nei “collegia” dell’Impero romano , in “Studi Classici Orientali”, XXI , 1972 ; C. Pavolini , La vita quotidiana ad Ostia , Roma , 1986.
26G. Zucca , Il quartiere dell’Artigianato , in “Capitolium” , n. 10 , 1927 , pp. 579-592.
27G. Carducci , Dello svolgimento della Letteratura Nazionale- discorsi tenuti nell’Università di Bologna-1868-1871 , in “ Discorsi letterari e storici” , Bologna , 1926.
28G. Giucci , Il dibattito sull’architettura e la città fascista , in “ Storia dell’arte italiana”, vol. 7, Torino 1982
29I. Insolera , Roma moderna , Torino 1962 , p. 132
30Per una ricostruzione più precisa degli sventramenti a Roma: L. Benevolo , Roma da ieri a domani , Bari 1971 ; C. De Seta , La cultura architettonica in Italia tra le due guerre , Bari 1972.
31Cfr. nota n. 29
32 R. Lanciani ,Catalogo della mostra archeologica nelle Terme di Diocleziano , Bergamo 1911
33 Per un maggiore approfondimento si consulti : AA.VV. , Catalogo della Mostra Augustea della Romanità , Roma 1923 ; G. Q. Giglioli , Mostra Augustea della Romanità , in “ Architettura” , n. II , 1938 , pagg. 664-666 ; G. Calza , Come si preparala Mostra della Romanità , in “ Sapere” , n. 21 , Roma 1935.
34Per un maggiore approfondimento si consulti : A.M. Colini , Museo della Civiltà Romana , Roma 1950 ; AA.VV. , EUR. Guida degli Istituti culturali , Milano 1995.
L’allestimento delle sale del Museo della Civiltà Romana compone di due grandi settori : quello cronologico e quello tematico che illustra le varie espressioni della civiltà romana. Attualmente il è sottoposto ad una ristrutturazione generale dell’edificio ed alla riorganizzazione delle collezioni in esso contenute. Sono ancora visibili alcuni plastici di Gismondi tra cui quelli delle insulae ostiensi. Anche il grande plastico di Roma Imperiale è tutt’ora sottoposto ad un minuzioso restauro.
35Cfr. nota n. 28.
36 N.D.R. Il concorso per il monumento ossario dei Caduti romani da erigersi al Verano , in “Architettura e arti decorative” , fasc. 7 , marzo 1923 , pp. 246-267.
37Alessandro Limongelli ( Cairo 1890- Tripoli 1932) di formazione accademico romana, i suoi maestri furono Milani e Giovannoni. Già nel 1921 con il progetto vincitore del concorso per l’ossario al Fante Italiano sul San Michele poté mettere alla prova la sua idea di architettura scenografica e magniloquente, di diretta derivazione romano antica, espressa soprattutto nelle sue mirabolanti e fantastiche ricostruzioni di antichità sia romane che egizie. Abile disegnatore fu indubbiamente influenzato dall’opera di Piranesi. Realizzò soprattutto allestimenti di mostre, alcune case popolari a Roma e degli edifici nella colonia libica.
38Gustavo Giovannoni ( Roma 1873-1947) Laureato in ingegneria civile a Roma nel 1895, nel 1913 ottenne la cattedra di Architettura generale presso la Facoltà d’Ingegneria di Roma. Storico dell’Architettura , svolse una intensa attività di ricerca contribuendo alla diffusione in Italia di Interessi Urbanistici, anche se ebbe nel dibattito architettonico del tempo una posizione fortemente ostile nei confronti dell’architettura moderna. Nel 1921 fondò insieme a M. Piacentini la rivista Architettura e Arti Decorative e fu tra i più ferventi fautori della creazione della Facoltà di Architettura a Roma dove insegnò Restauro dei Monumenti; fu inoltre presidente della Accademia di San Luca . La sua produzione architettonica fu limitata, mentre pubblicò numerosissimi scritti ed articoli nei quali fu molto polemico, negli anni tra le due guerre , nei confronti dell’architettura razionale, pur essendo stato molto importante il suo contributo di critico militante nella ricerca storica.
Per un maggiore approfondimento della figura di Giovannoni si consulti : G. De Angelis D’Ossat , G. Giovannoni, storico e critico d’architettura , in “ Quaderni di studi romani” , Roma 1949 ; P. Portoghesi , L’Eclettismo a Roma , Roma 1965.
39G. Giovannoni , Lo stabilimento balneare Roma alla Marina di Ostia , in “ Architettura e Arti Decorative” , 1926 , pp. 495-510.
Si veda anche : C. Magi Spinetti , Da Ostia Imperiale al Lido di Roma , in “ Capitolium” , n. 7, luglio 1934, pp. 309-324.
40C. Cecchelli , Fantasie architettoniche , in “Architettura e Arti Decorative” , fasc. 7, marzo 1928.
41Si vedano : A. Maiuri ,Visioni italiche: Pompei , 1928 ; gli articoli di A.J. Rusconi relativi ai nuovi scavi di Pompei apparsi su “Emporium” nel corso del 1927 ; M.T. Parpagliolo , I giardini di Pompei , in “Domus” , n.3 , marzo 1929.
42Giò Ponti nato a Milano nel 1897 si laureò nel 1921 presso il Politecnico di Milano e si dedicò inizialmente all’arredamento e alle arti applicate, partecipando alle esposizioni d’arte di Monza e alle Triennali di Milano.
Figura rappresentativa del gruppo di architetti milanesi formatisi sotto l’influenza del Neoclassico di G. Muzio, diede un importante contributo al discorso sul rinnovamento delle arti decorative nella ricerca di uno stile di rappresentanza della nuova borghesia italiana. Tale stile andò dalla Secessione viennese alla riproposta della romanità; vedi villa pompeiana.
43G. Ponti , Una villa alla pompeiana , in “Domus” , n. 79 , 1934 , pp. 16-19.
44N.d.R., Due ville dell’architetto Pierluigi Magistretti , in “Architettura”, marzo 1936.
45Ludovico Quaroni nato a Roma nel 1911 è stato docente alle facoltà di Roma, Napoli e Firenze. Autore di numerosi piani regolatori, di importanti quartieri residenziali a Roma, Matera e Prato , scrisse studi ed indagini su Roma tra cui : Una città eterna: quattro lezioni da ventisette secoli , in “Urbanistica”, n.27, 1959 , ripubblicato con altri scritti nel 1969 in “Immagine di Roma”.
46G. Accasto , V. Fraticelli, R. Nicolini , L’architettura di Roma Capitale. 1870-1970 , Roma 1971, p. 475
47Per un maggiore approfondimento si veda : F. Pasini , L’abitazione collettiva borghese nell’Impero Romano: l’esempio di Ostia , in “Trimestre” , anno VIII , nn. 3-4 , luglio-dicembre 1975; F. Pasini , Ostia Antica- insulae e classi sociali , Roma 1978.
48I.N.C.I.S. , L’opera dell’Istituto nel periodo iniziale , Roma 1927 , pag. 72.
49V. Fraticelli , Roma 1914-1929. La città e gli architetti tra la guerra e il fascismo , Roma 1982 , pag. 291.
50Il travertino ad Ostia proveniva soprattutto dalle cave nei presi di Tivoli, trasportato per via fluviale Aniene-Tevere. Per la sua durezza e la sua resistenza agli agenti atmosferici era impiegato nei punti di maggiore tensione statica, come gli spigoli e per parti architettoniche aventi una funzione di sostegno, oltre che per le soglie e spesso nella prima rampa di scale nei caseggiati a più piani.
51Per un maggiore approfondimento dell’attività dell’Istituto Case Popolari si veda : A. Calzabini , Il fascismo per le case del popolo , Roma 1927 ; AA.VV. , Cinquant’anni di vita dell’Istituto Autonomo per le Case Popolari della Provincia di Roma , Roma 1953; V. Fraticelli , Roma 1914-1929 ......., op. cit.; C. Cocchioni , M. D Grassi , La casa popolare a Roma . trent’anni di attività dell’ICP , Roma 1982.
52C. Melograni , Dalla casa popolare all’unità di abitazione , in “Ulisse” , vol VIII , settembre 1963, pag. 114.
53Innocenzo Sabbatini nacque ad Osimo nel 1981. Il primo contatto con l’ambiente architettonico lo ebbe presso lo zio architetto Costantino Costantini (1854-1937), grazie al quale apprese nozioni sulla modellazione. Trasferitosi a Roma nel 1913 iniziò a lavorare saltuariamente come disegnatore presso l’Istituto per le Case Popolari dove il cugino ingegnere Innocenzo Costantini (1881-1962) vi lavorava come progettista. Nello stesso periodo lavorò anche nello studio di Pio e Marcello Piacentini. Solo nel 1919 dopo un breve soggiorno a Milano venne assunto nell’Ufficio Progetti dell’ICP. Nel 1927 ottenne l’iscrizione all’Albo Prof. degli Ing. e Arch. di Roma e fu nominato capo dell’Uff. Progetti ICP per il quale realizzò moltissimi lavori. Nel dopoguerra Sabbatini continuò a mantenere lo studio a Roma anche se la sua attività si svolse prevalentemente ad Osimo e nelle Marche. L’opera di Sabbatini, nel suo riconosciuto eclettismo, procede sempre verso una progressiva definizione di un linguaggio architettonico legato al contesto ambientale ed ad una costante evidenziazione del valore urbanistico dei complessi da lui progettati che si propongono come pezzi della città e quindi come momento qualificante di essa.
Per un maggiore approfondimento della figura di Sabbatini si veda : B. Regni, M. Sennato , Innocenzo Sabbatini architetto , in “Capitolium” , nn. 5-6 , maggio-giugno 1976 , pag. 2 e segg.; B. Regni, M. Sennato , Innocenzo Sabbatini Architetture per la città , Roma 1982; L. Toschi , Innocenzo Sabbatini , in “ Storia dell’Architettura” n. 2, maggio-agosto 1982; G. Remideli , Guida alle architetture romane di Innocenzo Sabbatini , in “Bollettino della biblioteca della Facoltà di Arch. di Roma , n. 29 , gennaio-giugno 1982.
54M. Piacentini , Il momento architettonico all’estero , in “ Architettura e Arti Decorative”, vol. I , 1921.
55L’impianto urbanistico della Garbatella fu progettato da G. Giovannoni e dall’ufficio tecnico dell’Istituto per le Case Popolari nella persona dell’ing. M. Piacentini. La città-giardino nacque come sobborgo operaio in cui si cercò di realizzare ”case rapide” per riuscire ad immettere sul mercato abitazioni nel più breve tempo possibile. La Borgata risulta molto importante per i differenti esperimenti tipologici che sono stati fatti nell’arco di svariati anni. Nel primo nucleo di costruzioni è frequente il villino a due piani fuori terreno, isolato, accoppiato o iterato; insieme tipologie anomale furono usate per evidenziare punti focali del complesso. Costantini e Marconi si occuparono delle sistemazioni generali dell’area a disposizione e degli accessi, mostrando un rispettoso interesse per le naturali caratteristiche della zona, della quale potenziarono gli aspetti pittoreschi nell’insieme architettonico; Nori e Palmerini progettarono gli edifici per abitazioni comuni e Sabbatini le emergenze. Le costruzioni sono distribuite puntualmente nell’area perimetrata e divise da orti singoli o giardinetti collettivi. Il rapporto con la città fu stabilito attraverso una scalinata di accesso alla piazza più importante del nucleo iniziale della borgata, oltre che da quattro vie principali che delimitano il complesso. Le architetture propongono una mediazione continua tra città e campagna per mezzo di qualsiasi elemento progettuale; il romanticismo populista di Giovannoni, bilanciato dal modernismo di Piacentini, si concreta in alcune architetture che si potrebbero definire rustico-medievali con riferimenti tardo-eclettici, distanti e alternativi rispetto alla produzione edilizia popolare di quegli anni in Europa.
56Nella città-giardino Aniene a Monte Sacro (iniziata nel 1920) fu riproposta l’operazione architettonica della Garbatella ma con una maggiore oculatezza nella scelta della localizzazione dell’insediamento ( lontano dalla città tanto da essere una vera città-giardino satellite) e nella costruzione dei singoli edifici che furono più curati dati i diversi fruitori a cui erano destinati. Per questo il quartiere si è conservato fino al 1950 come testimonianza tangibile del discorso giovannoniano sul decentramento e sulla possibilità di una moderna periferia costruita secondo modelli urbanistici preordinati .
57M. Sennato , Innocenzo Sabbatini- Architettura tra tradizione e innovamento , Roma , 1982
58B Regni , M. Sennato , Innocenzo Sabbatini architetto , in “Capitolium” , 5-6 , maggio-giugno 1976, pag. 10.
59Carlo Cresti , Architettura e Fascismo , Firenze 1986 , pag. 146.
60Le Corporazioni vennero create con legge n. 163 del 5 febbraio 1934.
61C. Severati , Il contributo romano al linguaggio architettonico in Italia: un decennio cruciale (1930-1940) in cinquanta anni di professione , in “ AA.VV. “ 50 anni di Professione” ,Roma 1983
62L. Papini , in “Architettura e Arti Decorative” , 1927 , pag. 73.
63Si veda a tale proposito il concorso bandito nel 1929 per la Piazza della Cattedrale a Tripoli commentato nel paragrafo 7 di questo stesso capitolo.
64Si veda a proposito gli articoli ; N.d.R, Casette modello, in “Architettura e arti decorative”, n. 5/6 , 1930, pagg. 254-275 ; N.d.R, Un concorso per casette popolari modello, in “Capitolium”, n. 12, 1929, pagg. 634-641.
Le trascrizioni della relazione redatta dalla Commissione giudicatrice sono tratte dall’articolo di Plinio Marconi , Il concorso nazionale per il progetto della nuova Palazzata di Messina , in ”Architettura e Arti Decorative” , fasc. XII, agosto 1931 , pp. 583-614.
65Le trascrizioni della relazione redatta dalla Commissione giudicatrice sono tratte dall’articolo , Esito del concorso del ponte di Casanova a Napoli, in “Architettura” , febbraio 1932.
66“Architettura” fascicolo speciale, dicembre 1938.
67Ibidem.
68Cfr. nota n. 28
69A. La Stella , La “scuola romana” tra accademia e innovazione , in “AA.VV. la Metafisica. Gli anni venti , Bologna 1980, vol II, pag. 81
70Mario De Renzi ( Roma 1897-1967) collaborò a lungo nello studio di A. Calza Bini. Lasua formazione e maturazione passò dall’Eclettismo romano, nell’ambito del “barocchetto”, all’ambiguo Modernismo piacentiniano fino ad arrivare in collaborazione co A. Libera ad una originale e significativa architettura moderna; fu infatti nel 1931 tra i firmatari del Raggruppamento Architetti Moderni Italiani (RAMI). Tra le opere che appartengono alla sua prima formazione, vanno evidenziate la casa di via A. Doria (1927), il villino Cappellini a Colle Oppio(1931) e la casa convenzionata di viale XXI Aprile (1931/37)
71Di questo progetto De Renzi elaborò più versioni. Una prima, con la quale vinse il concorso e che si basava su un atipologia edilizia a corte chiusa venne respinta dalla Commissione Edilizia perchè l’edificio risultò essere troppo alto. Una seconda versione venne accettata, ma con la “raccomandazione di migliorare l’estetica del cornicione e salvo deliberazione di approvazione di una maggiore altezza su via Tolemaide”. Probabilmente queste richieste contrastavano con l’impostazione iniziale del progetto, inducendo De Renzi a mutarne totalmente l’impianto tipologico, anche per esigenze di insolazione ed aereazione, e a ripresentare l’anno successivo la nuove soluzione al’approvazione dell’organo competente. Questa volta il progetto viene respinto con l’indicazione di migliorarne i prospetti, utilizzando un linguaggio più “ortodosso”. Fu finalmente approvato nel luglio 1928.
72 M.L. Neri , Mario De Renzi. L’architettura come mestiere (1897-1967) , Roma 1992
73Plinio Marconi (Verona 1893), laureato a Roma in ingegneria nel 1919, dal 1927 al 1934 fu redattore-capo della rivista “Architettura e Arti Decorative”,dove pubblicò numerosi articoli di critica e storia. Professore di uUbanistica presso la Facoltà di Architettura di Roma, la sua figura fu di notevole rilievo nel dibattito urbanistico italiano.
74P. Marconi , Edilizia attuale in Roma , in “ Capitolium” , 1932, pagg. 506-514
75Cfr. nota n. 71.
76Mario Passanti (Torino 1901), formatosi nell’ambito del “Novecento”, si orietò poi verso un classicismo semplificato all’estremo e notevole per le proprietà tecnologiche, aderendo infine alle istanze del funzionalismo. Docente presso la Facoltà di Architettura di Torino, scrisse numerosi testi sull’architettura piemontese e in particolare torinese.
77Mario Pariconi ( Roma 1904) e Giulio Pediconi (Roma 1906) si incontrano nella Scuola Siperiore di Architettura dove ebbero un aformazione molto simile. M. Pariconi proveniva da una famiglia di architetti, mentre G. Pediconi apparteneva ad una famiglia di ingegneri e avvocati. Pariconi e Pediconi si laurearono, risoettivamente, nel 1930 e 1931 proprio nella Roma degli anni ‘30, la cui immagine si andava elaborando e trasformando. Paniconi fu docente di Composizione architettonica e redattore delle riviste “L’Architettura” e “Prospettiva”, mentre Pediconi fu direttore dell’Istitutodi Disegno della Facoltà d’Ingegneria a Roma. Paniconi e Pediconi in quegli anni cercarono di conciliare il razionalismo e il monumentalismo della cultura ufficiale con echi della metafisica del “Novecento”.
78Il 18 dicembre 1932 Mussolini inaugurò Littoria, la prima delle nove cittadine sorte sulle terre riscattate alla palude Pontina, sottolineando il fatto che fu il primo a portare a termine un’opera invano tentata per venti secoli da Imperatori e Papi. Il programma di popolamento delle terre pontine prevedeva in un primo tempo la realizzazione di colonie agricole e di borgate rurali di cui Littoria ne faceva parte. In realtàsin dall’inizio l’impianto planimetrico disegnato dakk’architetto Oriolo Frezzotti ricalcò il vecchio modello di tracciato viario a raggiera, diramantesi da una piazza centrale, ponendosi così le premesse per una vera e propria cittadina.
79A. Muntoni , Lo studio Paniconi e Pediconi , Roma 1987.
80M. Piacentini , Studio di un lotto Misto , in“Architettura” , 1942
81G. Ponti , Proposta di risoluzione di un quartire misto , in “Stile”, n. 22 , ottobre 1942.
82Cfr. nota n. 78.
83M. Piacentini , Classicità dell’E42 , in “Civiltà” , aprile 1940.
84M. Tafuri , Ludovico Quaroni e lo sviluppo dell’architettura modernain Italia , Milano 1964, pag. 58.
85Cfr. nota n. 46.
86Luigi Moretti (Roma 1907- Capraia 1973) architetto e urbanista, aderì parzialmente al razionalismo, utilizzando al contempo riferimenti all’architettura classica come nel piano urbanistico e nelle realizzazioni del Foro Mussolini. Dopo la seconda guerra fondò la rivista “Spazio” e si schierò a favore della corrente informale. Negli anni ‘50 in alcune opere come la Casa del Girasole (1950) a roma , oppure nel complesso di corso Italia (1950-51) a Milano e evidente l’interesse per lo spazio barocco, ma fu negli anni sessanta che raggiunse la sua piena maturità espressiva realizzando opere di prestigio internazionale.(complesso di WaterGate a Washington nel 1959-61 oppure la Stck-Exchange Tower a Montreal nel 1962-67).
87Giovanni Muzio (Milano 1893) laureato in architettura a Milano nel 1915 fu professore di Architettura al Politecnico di Torino (1936-51) e aquello di Milano (1951-63); realizzò moltissime opere sopratutto a Milano dove fu attivo anche nel campo dell’arredamento e del disegno dei mobili.
88Il progetto della Casa di via Giurati a Milano fu pubblicato su “ Architettura e Arti Decorative” del marzo 1931, pagg. 615-621.
89R. Airoldi , L’idea di architettura nelle opere di Giovanni Muzio (1922-1940) , in “Casabella”, n. 454, gennaio 1980.
90Ibidem.
91Le imprese coloniali indossarono la veste di “qualificante missione civilizzatrice e di pace”, divenendo l’occasione per esibire il proprio grado di maturità e civiltà al pari delle altre potenze europee. Per un migliore inquadramento sul colonialismo italiano, attualmente oggetto di studi che tendono a ricostruire in dettaglio una storia fino ad ora indagata in modo non sistematico, si può fare riferimento ad alcune fonti essenziali: C. Mariucci, T. Columbano, Il governo dei territori d’oltremare, Roma 1963; A. Del Boca, Gli italiani in Africa Orientale, 4 voll., Roma-Bari 1985;F. Grossi, Il colonialismo italiano da Adua all’impero, Bari 1981; A. Atmor, R. Oliver, L’Africa dal 1800 ad oggi, in “L’Africa”, Torino 1980.
92La Libia fu conquistata dall’Italia nell’ottobre del 1911. I suoi territori comprendevano la Tripolitania, la Sirtica, il Fezzan, la Cirenaica, la Marmarica e il deserto libico vero e proprio. Lo scopo di questa occupazione scaturì dall’intento di dare maggiore rilievo e centralità all’Italia nel bacino del mediterraneo, sfruttando favorevolmente, il momento di crisi in cui versava l’impero ottomano.
93G. Gresleri, L’architettura dell’Italia d’oltremare: realtà, finzione, immaginario, in AA. VV. “Architettura italiana d’oltremare 1870-1940, Venezia 1993.
94Ibidem
95L’attenzione della politica coloniale sabauda e poi italiana si rivolse inizialmente ai territori dell’Africa orientale e, in particolare, dell’Etiopia. Infatti la presa di possesso dell’Eritrea, in un primo tempo, e della costa somala, successivamente trovarono una motivazione in quanto basi d’appoggio essenziali per l’accerchiamento e l’assoggettamento delle regioni interne.
96La città di Tripoli, costruita sull’estremità del promontorio nel luogo dell’antica colonia fenicia di Uaiot, Oea sotto i romani, conservava ancora intatti il castello e la cinta di mura cinquecentesche. Immediatamente dopo l’occupazione italiana furono avviati una serie di lavori di carattere militare, edile ed opere pubbliche in tutta la Libia. Per la città di Tripoli gli interventi si concentrarono in due direzioni: la redazione di un piano regolatore generale, e la sistemazione della zona dell’arco di Marco Aurelio.
97A Sabratha gli scavi furono ripresi nel 1912 dopo anni di abbandono e proseguirono per tutti gli anni trenta e quaranta. I lavori furono diretti da Renato Bartoccini grazie al quale l’esplorazione riprese su basi più sistematiche.
98L’area delle rovine di Leptis Magna nel 1919, quando l’archeologo Pietro Romanelli era appena diventato direttore della Soprintendenza ai monumenti e scavi della Tripolitania, si presentavano quasi totalmente ricoperti dalla sabbia. Con Romanelli gli scavi ripresero più regolari malgrado la scarsità dei mezzi e la difficile situazione politico-militare. Gli scavi proseguirono sistematicamente negli anni trenta.
99A Cirene, dove i primi importanti ritrovamenti furono scoperti casualmente in seguito ad una pioggia torrenziale, gli scavi sistematici iniziarono nel 1915 e proseguirono durante gli anni 30’ e 40’ . Nel 1924 il ministro delle colonie Federzoli decise di affidare al professore Anti e a Marcello Piacentini, l’incarico di studiare un progetto per la nuova Cirene per rendere le rovine facilmente disponibili all’esplorazione archeologica.
100Arnaldo Brasini (Roma 1879-1963), si formò come stuccatore e decoratore. già negli anni dieci cominciò la sua attività di costruttore con il villino Tabacchi. Nel 1912 fu chiamato in Libia, dove diede indubbiamente una forte impronta personale. Infatti gli fu dato l’incarico di redigere il piano regolatore di Tripoli del quale in realtà fu interessato soprattutto alla progettazione delle emergenze monumentali. Progettò il monumento ai Caduti (1923-25), la cassa di Risparmio (1932-34), il restauro del castello (1922-23) e il lungomare Volpi ( 1922-24). Nelle sue proposte Brasini, pur non essendosi mai proposto direttamente il problema dell’ambientazione, cercò di creare un’architettura monumentale capace di conferire un’immagine precisa della città.
101I. Gismondi, Il restauro dello Strategheion di Cirene, in “Quaderni di Archeologia della Libia”, 2, 1951, pp.7-25.
102Cfr. nota n. 4
103Alberto Alpago Novello (Feltre 1889-1985), si diplomò all’Accademia di belle Arti nel 1912, formò insieme a Cabiati uno dei primi studi associati in Italia. L’attività progettuale era caratterizzata da un moderato rinnovamento all’interno della tradizione neoclassica milanese aderendo cioè al “Novecento”, che aveva in Giovanni Muzio la figura più prestigiosa. Lavorò con Cabiati e Ferrazza nelle colonie d’Africa soprattutto a Bengasi e a Tripoli.
104Ottavio Cabiati (Firenze1889-Seregno1956), si diplomò all’Accademia di Belle Arti nel 1913 e dal 1919 iniziò la sua collaborazione con Apago Novello che durò fino agli anni quaranta. Con De Finetti, Frezza e naturalmente Alpago Novello formarono il club degli urbanisti. Dal 1927 al 1935 lo studio svolse un’intensa attività progettuale, insieme a Guido Ferrazza, nelle colonie italiane, dove riuscirono a fondere il loro classicismo con la cultura locale e l’ambiente.
105Guido Ferrazza (Bocenago di Trento 1887-Cassano d’Adda 1961), laureatosi nel 1912 alla scuola di architettura del Politecnico di Milano, si formò all’interno del “Novecento” milanese. prima di essere chiamato in colonia progettò e costruì alcune opere a Trento. Dal 1927 lavorò a Bengasi dove fu protagonista insieme ad Alpago Novello e Cabiati della costruzione della nuova città coloniale. Negli anni trenta lavorò anche in Eritrea ed in Etiopia.
106 F. Reggiori, Architettura per la nostra maggior colonia, in “Dedalo”, vol. V, 1930-31.
107cfr. nota n. ?? La documentazione su Limongelli a Tripoli si può reperire presso l’archivio del Banco di Roma. Si veda inoltre N.D.R., Il padiglione del governatorato di Roma alla Fiera di Tripoli, in “Architettura e Arti Decorative”, fasc. I, 1929.
108 N.D.R., Il concorso per la sistemazione di piazza della Cattedrale a Tripoli, in “Architettura e Arti Decorative”, fasc. IX, Maggio 1931; N.D.R., Un progetto per il concorso della piazza della Cattedrale a Tripoli, in ibidem, fasc. XII, !930.
109Il progetto di Libera fu giudicato così dalla commissione: “Unitario, organico, studiato con grande cura nei riguardi planimetrici: la semplificazione modernissima, ravvivata però dalla vivacità del colore, da una armonica disposizione di spazi nei quali i pieni di pareti nitide si contrappongono ai loggiati ,la disposizione dei volumi creati con visione organica ed unitaria dal punto di vista edilizio ( . . . )rappresentano risultati architettonicamente pieni d’ingegno e di abilità ( . . . ). La preoccupazione di armonizzare la nuova architettura a quella della vecchia città senza ripetere i motivi folcloristici, aggiungendovi anzi una nuova nota rispondente ai nuovi tempi, è raggiunta da questo progetto, che nel gruppo di cui si è dinanzi parlato sopravanza decisamente ogni altro”. Cfr. nota 18.
110G. Ciucci, Architettura e urbanistica. Immagine mediterranea e funzione imperiale, in AA. VV. “Architettura italiana d’oltremare 1870-1940”, Venezia 1993, pp.109-115.
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Archivi
Archivi Guido Calza di Ostia ( A. G. C. O. )
Archivio Centrale di Stato ( A. C. S. )
Archivio dei Disegni di Ostia ( A. D. O. )
Archivio Fotografico di Ostia ( A. F. O. )
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